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ITA, che cosa sei?

An Alitalia airplane approaches to land at Fiumicino airport in Rome, Italy October 24, 2018. REUTERS/Max Rossi (Photo: Max Rossi via Reuters)
An Alitalia airplane approaches to land at Fiumicino airport in Rome, Italy October 24, 2018. REUTERS/Max Rossi (Photo: Max Rossi via Reuters)

Per quella caratteristica strabiliante che rende Internet un accumulatore di memoria indistruttibile, chi oggi si collega al sito di Alitalia non può acquistare un biglietto per volare a Natale, ma spulciando un po’ si può imbattere in una foto in bianco e nero. Scattata il 4 gennaio 1964: Papa Paolo VI, immortalato di spalle, nelle cabina di pilotaggio di un DC8. Con un paio di cuffie che gli servirono per la benedizione agli uomini dell’Aeronautica militare di scorta al volo diretto in Terra Santa. Iniziò così la storia dei voli papali targati Alitalia. E questa è solo una delle immagini che restituisce quello che è stata la compagnia aerea fino a 25 anni fa, quando iniziarono gli anni bui che l’hanno portata fino alla cancellazione e all’ennesimo tentativo di resurrezione che passa per Ita. Le prime divise delle hostess firmate dalle sorelle Fontana, apprezzatissime. Quelle rosse e verdi, e criticatissime, della stagione Etihad. Anche il dettaglio si è fatto costume, tendenza, soprattutto personalità. Se Alitalia è stata la compagnia di bandiera è per ragioni che vanno ben oltre la natura della proprietà pubblica che l’ha avuta in mano.

Ancora i vip del periodo della Dolce Vita che amavano farsi fotografare mentre scendevano dalla scaletta degli aerei, il prosecco servito anche in seconda classe: tutto questo non si esaurisce nella prospettiva dell’amarcord nostalgico. Quella Alitalia è poi implosa, non è replicabile e per molti aspetti non è un male se l’ottica si sposta ai motivi che l’hanno portata al fallimento e, nel ragionamento naïf ma sempre vero che tutto ha un prezzo, a far pagare il conto agli italiani: più di 12 miliardi in 45 anni, il che significa che ognuno di noi ci ha messo 210 euro di tasca propria. Ma quella Alitalia, nel bene e nel male, aveva una sua identità. E non un caso se ora si registra una grande apprensione per il destino del marchio, il brand tricolore che tutti sanno riconoscere. E non è neppure un caso se tra i banchi dell’aeroporto di Fiumicino, nel giorno in cui si è fermata la vendita dei biglietti di Alitalia ed è iniziata quella di Ita, tutti si chiedono se dal 15 ottobre, quando decolleranno i 52 aerei della nuova compagnia, i passeggeri saranno in grado di riconoscerli.

L’avventura di Ita parte da qui, dalla necessità cioè di costruirsi una nuova riconoscibilità innanzitutto per entrare nel mercato e per capire quale sarà l’accoglienza del mercato stesso, fatto di competitor più piccoli di lei ma anche di giganti. Non basta cambiare nome e iniziare a spendere 700 milioni dei 3 miliardi pubblici già stanziati. La discontinuità va costruita e governata. Lo sa bene il nuovo management che deve calare il piano industriale su una situazione ancora fluida e quindi incandescente. Ita si alzerà in volo con 2.800 dipendenti e se le cose andranno bene - esito tutt’altro che scontato - arriverà al massimo a 5.750 nel 2025. I dipendenti di Alitalia oggi sono però molti di più, oltre 11mila. Al primo incontro i sindacati hanno accusato l’azienda di volere le mani libere sui contratti. Non proprio un inizio scoppiettante sul fronte delle relazioni e questo è un aspetto importantissimo, che andrà gestito, perché la storia di Alitalia, e anche una parte della sua rovina, è stata quella di una sindacalizzazione estrema che ha contato, e parecchio, in uno scenario temporale lunghissimo caratterizzato anche da scelte scellerate da parte di diversi management e da decisioni politiche sballate.

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Ma prima di provare a capire quanto può essere solida l’esperienza della matricola Ita è utile fare un passo indietro, ripercorrendo le fratture che negli anni si sono aperte. Andrea Giuricin è un economista, membro dell’Istituto Bruno Leoni e tra i più grandi esperti di trasporti. Huffpost l’ha scelto per farsi accompagnare nell’analisi delle ragioni che rendono il passaggio da Alitalia a Ita qualcosa di assimilabile sicuramente a una scommessa, forse a un azzardo. Il primo grande scossone è la liberalizzazione europea del 1997. Da quel momento il mercato comunitario non è più oligopolistico e qualsiasi compagnia europea può entrare in Italia. Di fronte a questo grande cambiamento crescono le compagnie low-cost, come Ryanair e EasyJet, e si formano i grandi gruppi come Lufthansa, Air France-Klm e Iag, che ha dentro British Airways, Iberia, Aer Lingus e Vueling. “Alitalia - spiega Giuricin - ha avuto la possibilità di privatizzarsi fino alla fine degli anni ’90, ma la fusione con Klm è saltata perché la compagnia italiana era troppo sindacalizzata. Quella è stata l’ultima occasione per diventare una grande compagnia europea”.

Poi arriva l′11 settembre. Alitalia, che dal 2000 non ha mai chiuso un bilancio in attivo (tranne quello del 2002 grazie alla penale incassata da Klm), si ritrova in mezzo a una crisi senza precedenti. L’attentato alle Torri gemelle blocca i viaggi. “Mentre le altre compagnie hanno continuato a crescere - dice ancora l’economista dell’Istituto Bruno Leoni - Alitalia ha iniziato a dismettere i viaggi intercontinentali, che costituiscono il mercato più ricco perché è quello meno aggredito dalle low cost. I primi anni Duemila sono gli anni in cui l’Alitalia pubblica non ha avuto la capacità di capire il mercato del futuro e neppure la forza di arrivare a una fusione”. Gli errori di valutazione continuano negli anni. La mancata vendita a Air France nel 2008 e la scelta dell’allora premier Silvio Berlusconi di procedere con una privatizzazione all’italiana gestita dai capitani coraggiosi non intercetta quel cambio di passo necessario per evitare di ritrovarsi qualche anno dopo a non sapere come pagare il carburante. E non va meglio con gli arabi di Etihad: due anni di galleggiamento prima di ritrovarsi di fronte a una nuova crisi finanziaria. Nuovi soldi e un nuovo piano industriale. Ma nonostante l’accordo siglato anche con i sindacati, il 24 aprile 2017 è la pancia di Alitalia a scegliere il suo destino. Assai diverso. Il piano quinquennale per mettere in sicurezza la compagnia prevedeva tagli agli stipendi per chi volava fino al 20%, con una media dell′8%, ma anche una decurtazione degli stipendi, cassa integrazioni e un contratto d’ingresso modello low-cost per i neo assunti. Il 67% dei lavoratori vota no e qualche giorno dopo Etihad esce. Inizia la lunga stagione commissariale che porta alla decisione del governo Conte 2 di tirare fuori nuovi soldi pubblici e trattare con Bruxelles per far nascere Ita.

È in mezzo a questi passaggi che matura la crisi conclamata di Alitalia. Sempre Giuricin spiega perché la compagnia ha mancato l’appuntamento con il rilancio. “Negli anni ’70-’80, quelli più floridi, era facile fare utili perché lo Stato decideva tutto. Alitalia agiva in un monopolio, non si confrontava con il mercato. Quando si è aperta la competizione, gli obiettivi della politica, che aveva in mano la compagnia, si sono rivelati molto diversi, soprattutto per il fatto che non si è puntato sugli investimenti”. Il grande problema di Alitalia è stata la scarsa produttività, l’incapacità di essere realmente competitiva in un mercato variegato ma fatto di player che hanno giocato partite differenti (le low cost da una parte, i grandi assemblati dall’altra) ma che le hanno comunque giocate e con le carte giuste. Nel tempo Ryanair e EasyJet hanno accumulato una produttività tra il 50 e il 70% in più, sia in termini di riempimento a bordo che di frequenza dei viaggi, rispetto ad Alitalia. Hanno sfruttato la struttura punto-punto, cioè hanno fatto andare gli aerei avanti e indietro con più frequenza e con più persone a bordo. Anche in campo intercontinentale, Alitalia ha scontato un network molto limitato di fronte ai grandi gruppi internazionali che avevano un numero molto più elevato di aerei a disposizione. Anche in Europa la dimensione ha contato: Alitalia ha trasportato circa 22 milioni di passeggeri nel 2019, Lufthansa 150 milioni.

E adesso? Ita è una startup e inizierà a volare in autunno, una stagione già di per sé depressa rispetto all’estate, ancora di più per l’incognita degli sviluppi dell’emergenza Covid. E parte da una situazione già difficile visto che il traffico aereo si attesta ancora su una contrazione del traffico pari al 30% rispetto al 2019. Il mercato intercontinentale è quasi azzerato, le low cost mordono dentro i confini nazionali. Per Giuricin “Ita è una compagnia così piccola che difficilmente potrà stare in piedi, al massimo si potranno minimizzare le perdite”. Il che significa partire tanto per provare a fare un altro tentativo. “Ancora una volta - aggiunge - conterà il fattore della dimensione: Ita non ha una nicchia di mercato e un grande operatore può fare anche rotte in perdita pur di ucciderti e conquistare quelle stesse rotte”. C’è anche la questione del quartier generale operativo. Lufthansa ha una posizione di forza a Francoforte e a Monaco, Air France allo scalo Charles De Gaulle di Parigi. A Fiumicino a comandare, e già da tempo, sono altri. L’altro punto di forza delle compagnie tradizionali è il grande network, capace di coprire gran parte dei mercati, soprattutto con una frequenza importante. Ci sono compagnie che hanno 3-4 voli al giorno per andare a Chicago o a Los Angeles, Ita no. Per la clientela business che utilizza maggiormente questo tipo di voli è un’esigenza imprescindibile.

In pochi, anche dentro al Governo, si aspettano che l’avventura di Ita possa partire con la garanzia che avrà successo. Qualcuno rispolvera l’integrazione con le Ferrovie, si guarda sempre a un partner di peso per il futuro perché lo Stato di soldi ne ha già spesi parecchi. Insomma soluzioni che possano salvare la matricola Ita da uno schiacciamento sul mercato che bisogna mettere in conto. Ancora prima di decollare.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.