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Job-Hopping, la rivoluzione del lavoro che in Italia fatica ad arrivare

Businessman runs to the exit door<i></i> (Photo: tommy via Getty Images)
Businessman runs to the exit door (Photo: tommy via Getty Images)

Job hopping significa “saltare da un lavoro ad un altro”. Il termine – coniato negli Usa – definisce un fenomeno sempre più ricorrente nel mondo del lavoro contemporaneo: cambiare spesso lavoro, abbandonando l’idea, ormai anacronistica, di passare la propria vita professionale in un solo e unico luogo. Ed è anche il segno di una rivoluzione culturale del nostro tempo. È passato infatti dall’essere una macchia di infamia sul curriculum a nuovo modo di approcciare il mondo del lavoro.

Innanzitutto, perché si sente il bisogno di cambiare lavoro? La ricerca dell’Institute for Business Value (IBM) spiega che il primo e principale motivo per cui si sposta è un motivo umano: le persone vogliono lavorare in un posto che sia attento al benessere dei propri dipendenti, favorendo un equilibrio tra vita privata e lavoro. Per molti, ad esempio, la flessibilità è diventata un requisito essenziale e chiedono a gran voce orari elastici e possibilità di lavorare in smart working. Accanto il bisogno di essere valorizzati, cioè avere reali e concrete opportunità di carriera. La questione dello stipendio - guadagnare troppo poco rispetto al carico di lavoro svolto o voler semplicemente guadagnare di più - viene dopo. Segue a stretto giro il dato etico: più di un terzo del campione studiato dall’IBM dà grande importanza ai valori che caratterizzano la realtà in cui lavora. Il che dimostra che, oggi, i dipendenti cercano qualcosa di più di un compenso dai loro datori di lavoro. E questo è particolarmente vero per i lavoratori più giovani: solo il 29% dei soggetti facenti parte della cosiddetta Generazione Z (i Millenials) ha indicato lo stipendio e i benefit come centrali, contro un ben più nutrito 49%, degli over 55.

Il Job Hopping è quindi, a tutti gli effetti, un trend reale e in crescita, destinato a rimodellare le dinamiche del lavoro. Anche l’Italia si sta lentamente avvicinando al cambiamento: una recente ricerca condotta da Deloitte mostra infatti che, su 10mila giovani nati tra il 1983 ed il 1994, il 43% guarda con favore all’idea di cambiare lavoro a due anni dall’assunzione, dice una ricerca di Deloitte. Dato rilevante, se si considera che la GenY italiana è cresciuta nel mito del posto fisso eterno. Eppure, il fenomeno che ormai oltreoceano coinvolge il 64% dei lavoratori, qui stenta a prendere piede. Perché? Perché un mercato di job hoppers può funzionare bene solo a fronte di economie stabili o che abbiano almeno un tasso di disoccupazione basso. Secondo gli ultimi dati Istat, in Italia la disoccupazione è poco inferiore al 10% e tocca punte del 28% per i giovani. La mancanza di prospettive minimamente rincuoranti rende naturalmente più difficile abbandonare un lavoro, ancorché insoddisfacente, pagato male, senza prospettive, tossico.

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In ogni caso, quello che è certo è che il job hopping ha perso la sua connotazione negativa. Ben lungi dall’essere uno stigma, gli sono riconosciuti una serie di benefici: favorisce l’aumento di competenze, permette di ampliare la rosa di contatti, produce – non sempre, però – un effettivo miglioramento delle condizioni salariali o di trattamento. Le HR in seno alle aziende stanno iniziando a considerare la molteplicità di esperienze brevi una risorsa, più che un vulnus, perché la flessibilità sta diventando un valore. È ovvio, restano comunque una serie di considerazioni del datore di lavoro capaci di resistere al mutare delle maree: l’affidabilità del lavoratore, che si misura anche dal tempo speso nel e per l’azienda, e la necessità di investire non su chi va, ma su chi rimane (almeno un po’). Per questo gli esperti suggeriscono di restare almeno un anno, idealmente. O, altrimenti, di lavorare sulla “narrazione” di sé, perché la capacità di spiegare perché e come si è lasciato un lavoro dopo poco tempo può rivelarsi cruciale, addirittura più di un’esperienza professionale più lunga.

Questo cambiamento ha ricevuto una forte spinta dalla pandemia, su questo gli esperti e gli studi sono unanimi.Il Covid-19 ha ridefinitoi paradigmi della cultura del lavoro, aumentando a livello globale la sensibilità collettiva nei confronti di problematiche come il rischio burnout e, in generale, stare in un contesto lavorativo sano. Salute mentale significa felicità, e la felicità viene prima: questo è il principio base della YOLO Economy, che si è concretizzata poi proprio in un massiccio aumento di persone che hanno lasciato un lavoro che li rendeva insoddisfatti.

Il fenomeno, noto oltreoceano comeGreat Resignation”, riguarda anche l’Italia. Ne ha scritto Silvia Renda, proprio sull’Huffpost: secondo l’analisi di Francesco Armillei, pubblicata su Lavoce.info, nel secondo trimestre del 2021 i contratti terminati per dimissioni del dipendente sono aumentati sensibilmente (si parla di 484mila dimissioni tra aprile e giugno 2021), segnando un +37% rispetto al trimestre precedente.Nessun paese, nemmeno il nostro, può del resto dirsi insensibile ai grandi stravolgimenti degli ultimi anni. Esiste, effettivamente, una necessità comune di ripensare alcune dinamiche del lavoro a cui è necessario essere in grado di dare, se non soddisfazione, almeno una risposta.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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