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L’atomo non fa per noi (e noi per lui)

Modern Powerplant producing heat (Photo: zhongguo via Getty Images)
Modern Powerplant producing heat (Photo: zhongguo via Getty Images)

Tra le battaglie perse in partenza, quella sul nucleare è la più disperata. Anche senza combatterla già sappiamo come andrebbe a finire: in un buco nell’acqua. Tempo perso, fatica inutile. Per cui viene da domandarsi in che mondo viva Roberto Cingolani, ministro della transizione ecologica, il quale ha rispolverato l’atomo come fonte di energia pulita. Magari “pulita” la è, a confronto delle centrali a carbone e di quelle a metano che ci ammorbano di emissioni. Se l’emergenza è il clima, se il pericolo che corre l’umanità è l’innalzamento dei mari, se davvero vogliamo salvare i pinguini in Antartide e gli orsi in Alaska, se ci terrorizzano i fenomeni sempre più estremi del riscaldamento globale, non c’è dubbio che un nucleare a rischio zero, senza CO2 e senza scorie, sarebbe l’uovo di Colombo. Ma questo è un ragionamento da “tecnici” con la testa nei numeri, tipico di chi studia i problemi e cerca le soluzioni più razionali trascurando dettagli come la natura dei popoli, i meandri della politica, gli interessi in gioco.

Col nucleare ci siamo già cimentati tre volte; tutte e tre è finita pessimamente. La prima fu negli anni Sessanta, quando eravamo tra i massimi pionieri dell’energia atomica grazie alle quattro centrali (Latina, Garigliano, Trino Vercellese e da ultimo Caorso). Sembrava l’alba dell’atomo tricolore. Ma poi misteriosamente cadde l’aereo su cui viaggiava Enrico Mattei, grande sponsor del programma nucleare. Si sospettò di tutto, a cominciare dalle “sette sorelle” che trapanavano il globo per estrarre petrolio. Due anni dopo, nel ’64, ci pensò la magistratura a dare il colpo di grazia. Fu ammanettato Felice Ippolito, fisico napoletano vicino ai Radicali di Mario Pannunzio, presidente del Comitato nazionale per l’energia nucleare e bersaglio di campagne denigratorie foraggiate dai padroni del vapore. Gli appiopparono 11 anni di carcere perché nei weekend aveva guidato la jeep aziendale. Inoltre aveva regalato ai giornalisti delle borse in similpelle sperando di farseli amici: peculato aggravato. Il sogno (o l’incubo) nucleare poteva finire lì.

Nell’85 invece nuovo inutile tentativo, nel momento meno propizio. Il movimento ecopacifista era già nato in conseguenza della fuga radioattiva a Three Miles Island, United States of America, che aveva causato zero morti e altrettanti feriti, però sufficiente a incrinare la fede nel nucleare “sicuro”. Di sicuro, a questo mondo, non c’è nulla purtroppo: le dighe crollano (vedi il Vajont), nelle miniere scoppia il grisù, pozzi e petroliere lordano i mari, perfino coi pannelli solari si può restare fulminati. Ma nulla è paragonabile alle sfide ingegneristiche del nucleare su cui pesa, per giunta, il peccato d’origine: come primo impiego era servito a sterminare donne, vecchi, bambini tra Hiroshima e Nagasaki. Lo strumento di un crimine contro l’umanità. L’arma “di fine di mondo” durante la Guerra Fredda.

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Colmo della sfiga, appena fu varato il secondo piano atomico nazionale accadde il prevedibile, cioè la fusione del nocciolo a Chernobyl, esempio di centrale sovietica costruita per produrre il plutonio delle bombe atomiche e senza alcuno standard di sicurezza. Prima o poi doveva per forza capitare. Con la nube radioattiva che arrivava in Italia, contaminando perfino gli ortaggi, non era concepibile un esito diverso del referendum 1987. Stravinse il “no” al nucleare sponsorizzato da Craxi. Le atomiche Nato restarono nelle basi italiche, ma le centrali esistenti vennero tutte sprangate. Quella in costruzione a Montalto di Castro fu dirottata sul gas, al caro prezzo di 10mila miliardi delle lire di allora (più il solito magna-magna tangentaro) che pagò Pantalone.

L’ultimo tentativo a vuoto portò la firma di Silvio, chi se non lui? Oltre al ponte sullo Stretto, oltre al piano megalomane di grandi opere che mai si sono fatte, Berlusconi voleva tirare su quattro centrali atomiche anziché comprare watt dalla Francia dove, con l’energia nucleare, producono il 70 per cento della loro elettricità e di reattori ce ne sono una sessantina tra cui quattro a ridosso del confine italiano (per non parlare delle centrali svizzere e slovene). “Se dipendiamo dall’atomico francese”, ragionò il Cav, “tanto vale produrcelo in casa”. Ma subito dopo, e pure stavolta, il diavolo ci mise la coda. Terremoto nel Pacifico, tsunami sulle coste del Giappone, tragedia a Fukushima tre mesi prima del referendum 2011, targato stavolta Di Pietro. Da Bettino a Tonino, il cerchio si è chiuso. Pietra tombale pure sul programma berlusconiano.

Adesso si dovrebbe ricominciare daccapo. Servirebbero anni di studi e progettazioni. Bisognerebbe calcolare gli investimenti, soppesare le convenienze, valutare le alternative, superare gli ostacoli naturali, scegliere i siti in una Penisola che è tutto un sisma, una cementizzazione, un allagamento, una frana, un rattoppo; dove crollano i ponti, le scuole cascano a pezzi, i bus della Capitale vanno a fuoco, le infrastrutture restano quelle del Littorio e non si riescono nemmeno a fare abbastanza termovalorizzatori per la monnezza perché servirebbero timbri, autorizzazioni, licenze, ma soprattutto nessuno ne vuole in casa; si preferisce il fai-da-te delle ecomafie; oppure il turismo dei rifiuti urbani trasportati per migliaia di chilometri a generale energia altrove. Figurarsi come l’Italia accoglierebbe un ennesimo piano nucleare, con l’aggravante di Salvini che metterebbe centrali ovunque, perfino a Mantova di fronte a Palazzo Te, per la gioia di no-Tav, no-Tap e terrapiattisti vari. Si rivolterebbe la pancia di un Paese che crede nella divina provvidenza, nello Stellone, e spera di cavarsela con qualche mulino a vento (se soffia abbastanza), un po’ di fotovoltaico sui tetti (quando c’è il sole), sfruttando fiumi e ruscelli, più qualche colonnina elettrica per far contento l’ozono. Nel frattempo importando gas e petrolio. Ma il nucleare no, vade retro, mai più. Perché inutile illudersi, siamo come siamo. L’atomo non fa per noi, e noi per lui.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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