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L’Italia delle decisioni opache

L’ordinamento europeo si orienta verso una sempre maggiore trasparenza delle istituzioni. In Italia restano invece zone d’ombra, dall’attività delle commissioni parlamentari alla regolamentazione delle lobby e alla valutazione delle politiche pubbliche.

Anche i triloghi diventano pubblici

Per garantire ai cittadini “una migliore conoscenza dell’operato dei pubblici poteri” e, quindi, una più stretta partecipazione ai processi decisionali, l’ordinamento europeo si è progressivamente evoluto verso una maggiore trasparenza delle istituzioni. A ciò hanno contribuito nel tempo anche alcune pronunce dei giudici. L’ultima è la sentenza del tribunale dell’Unione europea che, il 22 marzo scorso, ha consentito l’accesso integrale alle tabelle a quattro colonne redatte nell’ambito dei cosiddetti triloghi, negoziati informali fra i due co-legislatori (Parlamento e Consiglio), finalizzati a raggiungere un’intesa per la successiva adozione formale degli atti legislativi. I negoziati non vengono contemplati dai trattati dell’Unione europea, ma sono diventati comuni nella pratica poiché la soluzione “ufficiale” prevista in caso di divergenza tra le due istituzioni – la“conciliazione”, cui può ricorrersi solo nella fase conclusiva dei lavori- si è dimostrata complessa e poco efficiente. I triloghi – possibili, invece, in ogni fase – hanno reso più spedita la co-decisione, che costituisce la procedura legislativa ordinaria dopo il trattato di Lisbona. Tuttavia, le trattative dei triloghi presentano un aspetto critico in termini di trasparenza: si svolgono a porte chiuse.

Il citato documento a quattro colonne “è l’unico atto che consente sia di tenere traccia di quanto effettivamente accade durante le riunioni, che di conoscere l’evoluzione delle posizioni espresse dalle delegazioni partecipanti”: ma mentre le prime due colonne del documento – proposta della Commissione e posizione del Parlamento – sono pubbliche, le altre due – posizione del Consiglio e proposta di compromesso – sono normalmente segretate. A questo riguardo, in seguito a un’inchiesta sui triloghi svolta nel 2015, il difensore civico europeo ha richiamato a una maggiore trasparenza. E la sentenza di marzo del tribunale dell’UE, sancendo che non esiste una “presunzione generale di non divulgazione” relativamente alle procedure legislative dell’Unione, ha dato ampia applicazione ai principi di pubblicità e trasparenza delle stesse. “L’esercizio da parte dei cittadini dei loro diritti democratici presuppone la possibilità di seguire in dettaglio il processo decisionale all’interno delle istituzioni che partecipano alle procedure legislative e di avere accesso a tutte le informazioni pertinenti” (punto 98). Del resto, in ogni democrazia rappresentativa – UE o ordinamenti nazionali – “la rappresentanza può aver luogo soltanto nella sfera della pubblicità”, non “in segreto e a quattr’occhi”.

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La situazione in Italia

Ma qual è il grado di la trasparenza del processo decisionale dei legislatori italiani?

In Italia vige il principio della pubblicità delle sedute delle Camere (articolo 64 Costituzione), per garantire la conoscibilità alle scelte operate, e la tecnologia ha consentito una sempre maggiore informazione sui lavori dell’assemblea. Eppure, restano margini di opacità nell’azione dei decisori. Innanzitutto, vi sono zone d’ombra sul funzionamento delle commissioni parlamentari permanenti, “cuore del processo legislativo(…). È in questi organi che si svolge la maggior parte del lavoro sugli emendamenti, in cui si cercano convergenze politiche e in cui il dibattito entra realmente nel merito delle questioni”. Solo per le sedute delle commissioni in sede deliberante o redigente vi è l’obbligo – non sempre rispettato– del resoconto stenografico (articolo 65 regolamento Camera; articoli 60 e 33 regolamento Senato) e può essere richiesta la pubblicità dei lavori.Invece, se le commissioni si riuniscono in sede referente o consultiva vengono stilati solo “resoconti sommari con molte poche informazioni. La poca accountability e trasparenza è evidente anche nelle votazioni. Il voto elettronico non è la regola, ed è quindi impossibile ricostruire come i membri delle commissioni votino sui singoli emendamenti, articoli, provvedimenti”.

In secondo luogo, in Italia non esiste una disciplina delle lobby e, pertanto, a differenza di quanto accade in UE, vi è totale opacità sulle “pressioni” che influenzano il processo legislativo.

Inoltre, vengono poco e male usati strumenti per la trasparenza della regolamentazione prodotta dal governo: l’analisi di impatto, cioè la valutazione preventiva di costi e benefici delle ipotesi di intervento normativo, mediante comparazione di opzioni alternative; e la verifica di impatto, vale a dire il successivo esame degli effetti prodotti dall’opzione prescelta.

Infine, manca un compiuto “ciclo di valutazione” delle politiche pubbliche, non solo per i profili regolatori, ma soprattutto per quelli inerenti alla definizione del problema da risolvere, agli studi di fattibilità delle diverse ipotesi di azione, al controllo in itineree alla verifica dei risultati: la trasparenza di tale “ciclo” consentirebbe un’effettiva conoscenza dell’operato dei pubblici poteri.

I margini di opacità sui processi decisionali restano, dunque, rilevanti. L’auspicio è che i recenti sviluppi in sede UE verso una maggiore trasparenza possano orientare nel medesimo senso anche l’ambito italiano.

Di Vitalba Azzollini

Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.

Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online