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L’Usd Libor vola, ma per i Treasuries è bonaccia. Ecco perché

Il Libor statunitense a tre mesi era allo 0,422% a inizio dicembre 2015, mentre ora si attesta allo 0,825%. E quello a sei mesi si collocava allo 0,633 nell’ultimo mese dello scorso anno, per situarsi adesso all’1,23%. Uno strano segnale, che non trova riscontro nell’andamento dei titoli di Stato sulle varie scadenze, impegnati in una discesa assai accentuata: il rendimento dell’US due anni è infatti nel frattempo sceso dallo 0,95% di inizio 2016 allo 0,75% corrente, mentre il 10 anni è crollato intanto dal 2,11% all’odierno 1,55%. Cosa c’è di anomalo in questi trend così ingiustificatamente divergenti? In realtà la pressione rialzista per il Libor non dipende dal mercato (se così fosse si tratterebbe proprio di un brutto segnale!) ma da evoluzioni normative riferite ai fondi monetari.

Quelle restrizioni non piacciono proprio

L’introduzione di minori vincoli di solidità e di rimborsabilità per una certa categoria di “funds” – i cosiddetti “prime” – che possono investire anche in bond “corporate” a breve scadenza, sta comportando una specie di fuga degli investitori da questa classe, con l’effetto di un aumento del Libor. Che non sembra rallentare con il passare dei giorni, ma all’opposto accentuare il movimento. Chi ne trae vantaggio? Coloro che detengono obbligazioni a tasso variabile in dollari, indicizzate appunto sui tassi a tre o sei mesi. Le quali stanno facendo registrare miglioramenti nelle quotazioni, dovuti logicamente all’aumento dei rendimenti. Ecco alcuni esempi: la Glencore (Francoforte: 8GC.F - notizie) 2019 (Isin XS0938722583), con attuale cedola al 2,04%, è risalita dai 90 Usd di aprile ai 98 di oggi, complice anche un cambiamento della valutazione di credito dell’emittente; la AT&T (Sao Paolo: ATTB34.SA - notizie) 2019 (Isin US00206RCD26), con attuale “coupon” all’1,33%, è passata da 98 a oltre 100 nell’arco di poco tempo; la Boeing (NYSE: BA - notizie) 2017 (Isin US097023BF19) ha lentamente scalato il percorso che la porta al rimborso, superando addirittura quota 100. E la casistica potrebbe proseguire.

Una situazione un po’ anomala

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Quanto possa durare questa fase non è facile da prevedere, ma certo è che non si tratta di una spinta derivante da previsioni di rialzo per i tassi da parte della Fed. In attesa dell’intervento al meeting di Jackson Hole venerdì 26 di Janet Yellen, le anticipazioni non vanno certamente nella direzione di un aumento già a settembre. Probabilmente se ne riparlerà a fine anno, con esiti elettorali presidenziali ormai acquisiti. Il limbo attuale proseguirà quindi e i Treasuries lo confermano, incollati come yield sotto lo 0,80% per il due anni, l’1,60% per il decennale e il 2,30% per il trentennale. Sono questi i valori di riferimento da monitorare, in una tendenza di calma piatta che prosegue dalla fine della primavera. Attenzione però: il livello della volatilità dei titoli di Stato statunitensi (analizzato mediante il Cboe/Cbot 10-years US Treasury Note Volatility) è tornato sotto quota 5, dove ha stazionato poche volte negli ultimi anni. Un rimbalzo è quasi dato per scontato. I mercati però non si preoccupano e pensano di mantenere in portafoglio i Treasuries ancora per alcuni mesi. Poi si vedrà, ma la maggior parte degli operatori stima che l’asticella dei tassi Fed non potrà salire oltre l’1% nel 2017. Lo stabilirebbe un preciso accordo fra le grandi Banche centrali del mondo. Non c’è che regolarsi di conseguenza.

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