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La formula del debito buono dimenticata da molti

(Photo: AB Pool - Corbis via Getty Images)
(Photo: AB Pool - Corbis via Getty Images)

Ricordate la formula del debito buono e del debito cattivo? L’aveva pronunciata Mario Draghi nell’agosto del 2020 alla platea di Comunione e Liberazione, e presto era diventata la religione civile del Paese. Divideva le riforme e gli investimenti, per i quali era lecito e giusto accumulare deficit, dai sussidi e dai bonus, per i quali si è prodotto il furto generazionale dei padri a danno dei figli. Ma, appena diciotto mesi dopo, e con l’ex capo della Bce da quasi un anno a Palazzo Chigi, sembra che la morale di quel racconto sia stata dimenticata da molti.

Non stupisce che a ignorarla siano stati in primo luogo i partiti. Il loro proclamato riformismo si ferma sul confine delle corporazioni e dei gruppi di pressione che ne sono l’elettorato di riferimento. È più strano, però, che anche il Governo abbia riposto quella formula nel cassetto. Messa al riparo la società con un’efficiente vaccinazione di massa, risvegliata la pubblica amministrazione con nuove regole e nuove risorse, mitigato il giustizialismo con una compromissoria riforma della giustizia, tacitata l’Europa con un modestissimo incentivo alla concorrenza, è come se Draghi avesse messo in sordina lo spirito riformatore con cui si era presentato al Paese. Quasi che, dopo aver rivendicato autonomia sull’emergenza e sui rapporti con Bruxelles, avesse restituito il boccino ai partiti nelle questioni più prettamente politiche.

Il rischio ora non è solo di rimettere il debito pubblico al servizio di strategie meramente distributive, ma anche di smentire la più importante sostenibilità tra quelle proclamate di questi tempi: la sostenibilità generazionale, per la quale nessuna generazione può ipotecare il futuro di quella successiva. La transizione che questo paradigma impone è anch’essa ecologica, in un senso lato: piuttosto che sussidiare gli anziani perché mantengano i giovani, impone di sostenere i giovani perché aiutino gli anziani. Tutte le policy intermediate dal governo nelle ultime settimane sembrano mancare quest’obiettivo.

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Che la riforma del reddito di cittadinanza fosse un cambiare tutto per non cambiare niente è stato evidente sin da subito. L’impianto del sussidio resta quello voluto dal Governo gialloverde e confermato da quello giallorosso. Nessuno crede che la perdita del vitalizio dopo il secondo no a un’offerta di lavoro sia un incentivo allo spirito di iniziativa del lavoratore espulso. Intanto perché la seconda offerta giunge spesso dopo anni, e l’intervento delle agenzie interinali, al fianco e in alternativa al collocatore pubblico, non modificherà subito la tempistica. Ma ciò che fa di questo strumento del welfare un’arma spuntata è la misura sproporzionata del reddito rispetto al mercato in cui si colloca. La nuova legge di bilancio lo implementa, portando fino a 1540 euro il sussidio di un padre di famiglia con quattro figli a carico. C’è da chiedersi quali lavori al Sud, e non solo al Sud, possano garantire un salario simile. A queste condizioni il reddito di cittadinanza è un potente disincentivo a lavorare, che istituzionalizza lo status di sussidiati per tre milioni di cittadini, caricandoli sulle spalle dei ventidue milioni di lavoratori contribuenti, molti dei quali più poveri dei primi.

Sulle pensioni il passaggio da quota 100 a quota 102, ancorché per un anno, è una parziale validazione del più ingiusto e oneroso danno che una politica contributiva sbagliata può arrecare ai giovani. La mediazione al ribasso del Governo, già censurata da Corte dei Conti e Bankitalia, dimostra che nessuna classe politica toglierà i privilegi che la precedente ha garantito. Quota 100 doveva essere un rimedio temporaneo per mitigare gli effetti della riforma Fornero. Rischia di resuscitare i vecchi diritti acquisiti del metodo retributivo, che nega la pensione a chi verrà dopo di noi.

E che dire del Superbonus per le ristrutturazioni? L’assurdo di una detrazione che supera la spesa, e che suona comune a un’istigazione all’abuso, viene prorogata di due anni, contro ogni ragionevolezza. È la prova di un passo indietro del Governo rispetto ai partiti. Che si ripete in questi giorni con la delega fiscale. Qui spuntano otto miliardi come effetto di una crescita superiore alle attese, e vengono sciupati in un irrilevante alleggerimento dell’Irpef, che si limita a spostare vantaggio tributario tra i diversi scaglioni di reddito. Si rinuncia invece ad alleggerire il cuneo fiscale, magari in favore di giovani e donne, che potrebbe aumentare i redditi riducendo il costo del lavoro e sviluppando la competitività del Paese.

La strategia di Draghi nel rapporto con le forze politiche sta cambiando, imboccando una parabola discendente. Dopo essersi proposto come apripista per un riformismo coraggioso, il premier sembra ripiegare verso una logica di riduzione del danno. Che vuol dire accontentare i partiti, limitando l’impatto delle loro pretese. Che questo tatticismo risponda a una prudente marcia di avvicinamento al Quirinale è un’illazione suggestiva, ma dietrologica. Ci pare più convincente spiegarlo con la fragilità di un progetto politico che qualunque Governo di salute pubblica prima o poi scopre. Draghi ha sfidato il populismo con un linguaggio di verità e di responsabilità, ha resuscitato una borghesia che non si vedeva da decenni, ma non può da solo, contro la politica, imporre e stabilizzare una prospettiva riformista. In quell’ormai storico discorso alla platea di Comunione e Liberazione, l’ex banchiere della Bce se ne dimostrò consapevole, quando riconobbe che, in tempi speciali, quali quelli che viviamo, non bastano politici e banchieri competenti e coraggiosi, ma servono leader legittimati da una comunità di destino, con cui condividano una visione.

Questo vuol dire realisticamente che l’alba delle riforme in Italia è destinata a declinare anzitempo in tramonto, senza una politica egemone che se la intesti. E che non si vede. Il quadro dei partiti è già in standby quirinalizio. Chiunque sia il nuovo inquilino del Colle è difficile pensare che, nell’anno che ci separa dalle elezioni, nuove riforme vengano incardinate dal premier, ammesso che sia ancora Draghi, e sostenute da una maggioranza così eterogenea in aperta competizione in vista del voto. Per fare solo due esempi, la sanità resterà una grande malata che si nasconde sotto l’ombrello dei vaccini. E la scuola continuerà a essere un’amnesia del dibattito pubblico e un serbatoio del precariato elettorale. In mancanza di riforme compiute, gli investimenti rischiano di essere opere pubbliche senza un disegno. Lo stesso fiume di denaro del Pnrr potrebbe trasformarsi in rendita parassitaria. Di una sola cosa c’è certezza, documentata nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza: continueremo a fare deficit oltre il 3 per cento del Pil fino al 2023. In questo clima, non sai se si tratti di una garanzia o piuttosto di una condanna.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.