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La protesta dei sindacati sulle pensioni è volutamente miope. Per due motivi

(From L) General Secretary of the Italian General Confederation of Labour (CGIL), Maurizio Landini, General Secretary of the Italian Confederation of Labour Unions (CISL), Luigi Sbarra and General Secretary of the Italian Labour Union (UIL), PierPaolo Bombardieri applaud on stage at the end of an anti-fascist rally called by Italian Labour unions CGIL, CISL and UIL at Piazza San Giovanni in Rome on October 16, 2021, a week after a demonstration against the so-called Green Pass degenerated into an assault on the CGIL trade union building, led by the neo-fascist Forza Nuova party. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP) (Photo by ALBERTO PIZZOLI/AFP via Getty Images) (Photo: ALBERTO PIZZOLI via Getty Images)

La protesta di Cgil, Cisl e Uil sulle pensioni, tutti assieme senza eccezione alcuna, è onestamente miope e controproducente. Lo è per una ragione prettamente concreta: ancora una volta davanti all’opzione anziani-giovani preferiscono lottare più per i primi che per i secondi. Ma lo è anche per un’altra ragione, stavolta prettamente politica: danno così robusta sponda a Salvini nel rivendicare la misura simbolo del governo gialloverde, versante verde, e cioè Quota 100, provvedimento peraltro già bocciato dagli italiani e dalla storia recente.

La prima reazione alla manovra firmata da Draghi da parte dei sindacati è stata infatti un’alzata di scudi nei confronti della soluzione individuata dal ministro dell’Economia Franco per ovviare allo “scalone” che ricomparirebbe dal primo gennaio per effetto della Riforma Fornero. Dall’anno prossimo infatti scade Quota 100 ovvero quella finestra per il pensionamento anticipato (che si ottiene sommando età anagrafica e anni di contribuzione) tanto voluta dalla Lega alla prima Finanziaria del governo sovranista-populista, nel 2018. Il Tesoro pensa quindi di risolvere il problema aggiungendo due gradini per addolcire lo scalone: quota 102 nel 2002 e quota 104 nel 2023. Troppo poco però per i sindacati. Tanto che i segretari confederali partono con la solita sfilza di dichiarazioni roboanti. Per Landini è “una presa in giro”, per Sbarra è una cosa “inaccettabile” per Bombardieri addirittura “una beffa”. Parole che stupiscono e non poco, visto che si tratta della prima reazione a un articolato molto più complesso, che è quello della manovra economica, l’atto legislativo per eccellenza che ogni anno contribuisce a definire la politica economica del governo.

In altri termini, i sindacati di fronte a una selva di misure per lavoratori, imprese, welfare, sanità e via dicendo si sono concentrati esclusivamente sui pochi soldi messi sul capitolo pensioni, più o meno un miliardo in due anni. Una reazione che evidentemente è figlia di una scelta ben precisa: battersi per chi un lavoro l’ha avuto e che ora - giustamente dal suo punto di vista - cerca il modo migliore per lasciarlo e andare in pensione, invece che indirizzare tutte le forze per dare una mano e soprattutto una voce a quei tanti giovani che invece il lavoro non ce l’hanno o lo stanno perdendo, qui e ora. Nessuno dei tre, ad esempio, s’è ancora lamentato per il fatto che alla riforma degli ammortizzatori sociali andranno solamente 3 miliardi: troppo poco per pensare di proteggere e dare una formazione adeguata a tutti quelli che nei prossimi mesi perderanno lo stipendio. Si tratta di una semplice questione di priorità nella lotta: in un momento come questo di post-pandemia forse converrebbe più difendere chi sta per uscire dal mercato del lavoro con le ossa rotta rispetto a chi tutto sommato si pone il problema di come lavorare un paio d’anni meno del previsto. Però, mi rendo conto, bisogna fare i conti con la geografia degli iscritti alle sigle sindacali: e lì la maggioranza di chi ha la tessera in portafogli è pensionato. E ciò forse basta a spiegare la particolare attenzione a quel mondo.

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L’altro errore dei sindacati è poi di tattica politica. Con le loro proteste finiscono per dare spago a Salvini e a tutta la Lega che su Quota 100 ha fatto campagna elettorale permanente, dando così vita a uno straniante asse politico-sociale. E non solo: in questo modo legittimano una misura che alla fine della fiera è stata gradita poco dai lavoratori, pur essendo molto dispendiosa per i conti pubblici. Il bilancio fatto dall’Inps è infatti senza appello. Nei tre anni di sperimentazione gli italiani che ne hanno fatto richiesta sono 314mila, per un costo a carico della collettività di 11,6 miliardi (già spesi), che salirà a 18,8 complessivi da qui fino al 2030. L’entità del flop la si misura correttamente se si paragonano questi numeri a quelli previsti dalle simulazioni fatte dal Conte I nel 2018, quando l’uscita anticipata fu approvata. Ebbene l’esecutivo gialloverde allora si aspettava di mandare in pensione quasi un milione di persone, per l’esattezza circa 973 mila italiani. La realtà ha detto tutt’altro: i lavoratori pubblici e privati hanno gentilmente declinato l’offerta, solo un terzo di quelli previsti hanno accettato l’uscita.

Ha senso quindi difendere a spada tratta una misura del genere e invece avanzare flebili e balbettanti richieste per giovani e precari? Per Salvini certamente sì, visto che è affare di propaganda, per i sindacati molto meno, visto che di propaganda dovrebbero avere molto meno bisogno.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.