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La riforma Cartabia fa slittare le altre. Per fisco e concorrenza ci si vede a settembre

Mario Draghi (Photo: Roberto Monaldo - POOLANSA)
Mario Draghi (Photo: Roberto Monaldo - POOLANSA)

La prima domanda che solleva il rinvio a settembre della riforma del fisco e della legge sulla concorrenza è perché un governo nato per mettere in piedi un Recovery credibile e affidabile non riesce a centrare le scadenze inserite nel piano inviato a Bruxelles. La risposta non può essere esaustiva se si riduce allo slittamento in sé, che c’è e che nessuno nega né a palazzo Chigi né al Tesoro. Innanzitutto perché il ritardo non impatta sull’erogazione dei soldi da parte dell’Europa e questo salva Mario Draghi, ancora di più il Paese, dalla falla più grande e cioè fermarsi prima ancora di partire. Insomma approvare i due provvedimenti tra un mese non è un cappio al collo. Soprattutto - e si arriva così a un’ulteriore sfaccettatura della risposta - perché il premier deve portare a casa una riforma che lo stesso Recovery definisce centrale, trasversale a tutte le missioni del piano e necessaria per generare “innovazioni strutturali”. Prima, quindi, la riforma della giustizia.

Non è un caso se la possibilità di approvare almeno uno dei due provvedimenti economici prima della pausa estiva sia rimasta attiva fino a mercoledì sera. Poi le avvisaglie di un Consiglio dei ministri da costruire per il via libera alla riforma della giustizia hanno spinto il premier a concentrare lo sforzo sulla necessità di trovare una quadra per portare a casa il risultato più importante, superando le frizioni interne alla maggioranza. Tra l’altro - se si può definire una parentesi la gestione di una pandemia - ci sono le questioni legate al Covid, dal green pass alla ripartenza della scuola in presenza a settembre. Qui è doveroso aprire un’altra considerazione, che può apparire banale, ma che è una caratteristica del modo di fare di Draghi: una cosa per volta, partendo delle priorità. Questo è anche il messaggio che arriva dai suoi collaboratori più stretti. Stride con la narrazione di Super Mario infallibile che tutto può, in fretta e bene, ma l’altro lato di questa parentesi dice che è finita la stagione delle grandi promesse della politica, poi sistematicamente tramortite dagli scontri tra i partiti.

Tutto questo non cancella il fatto che è stato lo stesso governo a legarsi all’impegno di approvare le due riforme entro il 31 luglio. Pagina 77 del Piano nazionale di ripresa e resilienza: “Si prevede la presentazione in Parlamento del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza entro luglio 2021”. Pagina 78: “Il Governo presenterà al Parlamento, entro il 31 luglio 2021, una legge di delega da attuarsi per il tramite di uno o più decreti legislativi delegati”. Partiamo dalle tasse. Innanzitutto la riforma del fisco accompagna il Recovery. “Se pure non ricomprese nel perimetro delle azioni previste dal Piano - si legge nel testo - queste riforme sono destinate ad accompagnarne l’attuazione, concorrendo a realizzare gli obiettivi di equità sociale e miglioramento della competitività del sistema produttivo già indicati nelle Country Specific Recommendations rivolte al nostro Paese dall’Unione europea”. Da tempo l’Europa ci dice che dobbiamo rivedere il sistema fiscale, ci dice anche come (meno tasse sul lavoro), e da altrettanti anni si sono registrati dissensi (celebre quello sull’Imu) e interventi casalinghi ridotti al lumicino e legati alle bandierine di partito. Il fatto che quella del fisco non rientri tra le tre riforme cardine (oltre alla giustizia ci sono le semplificazioni e la Pa) né tra quelle orizzontali non significa che non sia un impegno da rispettare. Ma nel ragionamento di dare spazio alle priorità si può sacrificare con un rinvio.

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Qui si apre l’altro elemento che fonti di governo illustrano a Huffpost per spiegare perché lo slittamento è a saldo zero. Se si passano in rassegna le milestones e i target del Recovery, cioè le tappe e gli obiettivi, non si trovano quelle sul fisco. Esiste, però, un cronoprogramma voluto dal Governo, la cui data di inizio, il 31 luglio, è stato aggiunto per dare più peso politico all’impegno assunto con Bruxelles. Si parte, meglio si doveva partire, con la presentazione del disegno di legge delega entro la fine del mese e poi chiudere la partita dei decreti delegati entro i prossimi sei mesi. Le stesse fonti spiegano che un mese in più non impatta su questo percorso.

Ci sono però ragioni che all’interno del Governo nessuno nasconde, quantomeno nei ragionamenti informali che si fanno sotto traccia, a taccuini chiusi. Sono i problemi politici. La riforma della giustizia ha già fornito un quadro evidente degli appetiti dei partiti della maggioranza, sul fisco arriveranno. Come scritto nel Recovery e come confermato dal ministro dell’Economia Daniele Franco, il Governo partirà dal documento messo a punto dal Parlamento. La domanda che si lega al rinvio a settembre è perché il disegno di legge delega non è stato fatto per tempo, tenendo conto del fatto che la natura generale di una legge delega avrebbe permesso di non scendere troppo nel dettaglio, come fatto con quella sugli appalti, e quindi di sterilizzare il ritorno delle bandierine di partito, a iniziare dalla flat tax cara alla Lega. Al Tesoro la discussione e il lavoro sulla delega sono partiti da alcune settimane, acquisendo la consapevolezza che si può essere più che generici nella direzione da intraprendere dato che ci sono problemi anche legati ai soldi a disposizione per finanziare gli interventi. Franco, e su questo Draghi è più che d’accordo, non vuole fare una riforma in deficit, già spremuto dai decreti anti Covid del Conte 2 e dell’attuale governo. L’imprevedibilità della variante Delta induce alla prudenza e alla necessità di tenere il tesoretto a disposizione di eventuali nuovi aiuti da erogare.

Tanto è vero che il lavoro preparatorio sulla delega contiene un’indicazione di spesa molto bassa (2-3 miliardi) e soprattutto da mettere nero su bianco in autunno, con la legge di bilancio. Avvicinare l’approvazione della stessa delega a un orizzonte temporale più veritiero nel rivelare l’evoluzione della pandemia e quindi quanti soldi si possono mettere per le tasse è un’altra motivazione che attenua la questione del rinvio rispetto alla scadenza annunciata di fine luglio. Il fatto che saranno i decreti delegati, che si punta ad adottare sempre entro la metà del 2022, a ospitare la soluzione dei desiderata dei partiti, conferma che la riforma ha un raggio d’azione più dilatato.

La legge sulla concorrenza segue più o meno i ragionamenti fatti fino ad ora. A differenza del fisco figura nelle milestones e nei target del Recovery, ma il patto politico tra Roma e Bruxelles passa anche dalla consapevolezza che la materia è assai delicata in tutta Europa. Il fatto che la legge annuale sulla concorrenza è stata presentata solo una volta dal 2009 a oggi (nel 2015 per essere chiusa nel 2017) non è un alibi, tra l’altro la fase finale della trattativa con Bruxelles ha riguardato proprio le richieste di adottare interventi incisivi in materia. Anche qui c’è una traccia (la segnalazione di marzo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato), ci sono testi, come quelli sui porti, sulle colonnine elettriche e sui servizi locali, ma ci sono anche temi spinosi che dividono la maggioranza. Un esempio su tutti è la questione delle spiagge e della famosa direttiva Bolkestein. Cambiare le regole in corsa, d’estate, con una stagione già condizionata dal tema del green pass, avrebbe significato gettare benzina sul fuoco su quello che è un problema che anche Draghi dovrà affrontare: le rivendicazioni di chi ha in mano le concessioni. Riguarda le spiagge, ma anche le autostrade, tra l’altro tornate in mani pubbliche, ancora il gas e le concessioni idroelettriche. Non parliamo solo delle lobby, ma anche di temi che toccano da vicino il rapporto con gli enti locali, dato che Regioni e Comuni sono i custodi delle municipalizzate che hanno in mano numerosi servizi.

La coda delle questioni che gravano sulle due riforme tira in ballo un’altra riforma, quella degli ammortizzatori sociali. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando l’aveva promessa entro il 31 luglio. Dal ministero spiegano che “si sta continuando a lavorare come previsto e sta maturando ampia condivisione sull’impianto di una riforma arrivata all’ultimo miglio”. Ma tutti nel Governo danno per scontato che se ne parlerà a settembre. Serve tempo anche per irrobustire un metodo che i sindacati vorrebbero allargare subito alle pensioni e che soprattutto sul fronte della Lega registra un dissenso non da poco su come collegare i nuovi ammortizzatori alle politiche attive sul lavoro. Le cose si fanno più grandi perché il progetto di una cassa integrazione per tutti i lavoratori si tira dentro il fallimento grillino dei centri per l’impiego e dei navigator, ma anche la politica industriale da confezionare per dare una risposta alle crisi che hanno generato licenziamenti. Sono anche il paracadute per governare la transizione ecologica che non è a costo zero. Anche qui servono soldi (6-7 miliardi) e quelli a disposizione, presi dallo stop al casback, sono solo 1,5 miliardi. Anche questo andrà capito: se cioè si sceglierà la strada classica, cioè un po’ di soldi a tutte le riforme o se la spesa si concentrerà su una di queste. Ma di tutto questo se ne parlerà dopo l’estate.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.