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L'attacco a Palombelli e la diffusa indisponibilità a fare i conti col male

Barbara Palombelli (Photo: getty)
Barbara Palombelli (Photo: getty)

Il punto non è più che cosa abbia detto in tv Barbara Palombelli. Il punto è - come ha ben chiarito Massimo Adinolfi ieri su HuffPost - se abbia senso provare a entrare nella testa di chi commette violenza sulle donne. Da questa domanda, che interroga in maniera diversa la giustizia, la politica e il giornalismo, dobbiamo partire per capire che cosa stia accadendo nel discorso pubblico. Perché il biasimo levatosi da ogni dove contro la conduttrice di Forum racconta un fenomeno, cioè una diffusa tentazione di ridurre la lotta al femminicidio alla condanna penale e alla censura morale. È, icasticamente, un “non sentire ragioni”. Ma, come molti fenomeni sociali, ha dentro di sé un’ambivalenza: è insieme effetto dell’emergenza e di un’acquisita consapevolezza. Francesco Merlo su Repubblica lo spiega così: “La parola femminicidio implicitamente condanna le vecchie parole che sono consumate: amore criminale, delitto passionale, follia assassina, violenza in famiglia, resa dei conti. E con quelle parole archivia pure la vulgata psicanalitica e il facile sociologismo, al quale ha fatto riferimento Barbara Palombelli: la rabbia cieca, la povertà delle famiglie, l’istinto immediato della vigliaccheria, l’onore, la gelosia, il possesso, il tradimento, l’adulterio che, ben prima del femminicidio, esprimevano già la disputa maschile sul corpo della donna”.

Non ha torto Merlo, perché ogni violenza socialmente egemone, come quella del maschio sulla femmina, tende ad autolegittimarsi con una retorica giustificatrice. La storia del delitto d’onore lo insegna. Però il rischio è che, facendo giustamente piazza pulita di sociologismi e psicanalisi a buon mercato, la società si vada anche convincendo che entrare nella testa dell’assassino, spaccare il guscio del male per capire cosa c’è dentro, sia diventato inutile. Di più, irriguardoso per le vittime. Perché questo sta accadendo.

È un processo che ha due conseguenze. La prima è la rinuncia a comprendere che la violenza non è altro da noi. Di là i mostri, di qua bravi mariti e mogli, compagni e compagne, amanti. Divisi da un muro invalicabile, che è anche uno schermo per non vedere e non sentire. Non è un caso che, di questi tempi, il rimedio suggerito contro la violenza sia uno stato permanente di vigile attenzione che ne individui gli indizi premonitori. È quello che fa dire in tv a sedicenti esperte di femminicidi: denunciateli al primo schiaffo, al primo segnale di una possessività irragionevole.

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Non che questo non sia astrattamente sacrosanto, ma alla prova dei fatti è impraticabile. Perché la violenza è invischiata subdolamente nella relazione, si nutre spesso di una dipendenza patologica che non si disattiva certo con una postura investigativa. Fa stupore, perciò, che la maggior parte delle donne rinuncino a denunciare, per lo stesso motivo per cui nessuno si chiede che cosa davvero accadrebbe se tutte lo facessero, se tutte portassero in questura i propri partner la prima volta che intercettino nel loro sguardo la luce sinistra della rabbia. Basterebbero tutte le carceri del Paese per impedirgli di nuocere?

La seconda conseguenza è che, nel discorso pubblico, tutti i femminicidi finiscono per essere uguali, cioè per esserne uno solo, simbolicamente potente, ma senza alcun contatto con la tragica realtà della vita. E per tutti si invoca la stessa pena, la massima. Poiché niente, davvero niente - si dice - giustifica l’uccisione di una donna. E non vale l’obiezione che, a parti invertite, le cose non siano così nette. Non vale che la mantide, che avveleni il marito per dividere con l’amante l’eredità, non sia paragonabile alla moglie che lo uccida reagendo a una vita di vessazioni e abusi. Non vale perché nel femminicidio la relazione tra carnefice e vittima è schematica. La definiscono lo squilibrio dei rapporti di forza tra uomo e donna e il rifiuto dell’uomo ad accettare un sovvertimento di questo paradigma. Nel femminicidio non esiste quasi mai un partner subalterno che possa invocare l’attenuante delle vessazioni subite da una donna.

E tuttavia c’è da chiedersi se questa rigidità di ruoli renda inutile o, addirittura, inopportuno indagare la diversità irripetibile di ogni singola relazione umana. Senza che questo produca l’effetto di costruire un reato che non è più un fatto umano, e in cui le stesse donne facciano fatica a riconoscersi. Perché ciascuna storia individuale rischia di essere diversa dalla storia tipo. Insomma, viene da chiedersi se la riduzione di quella complessità che anche il femminicidio ha, in quanto omicidio, aiuti le donne a difendersi e gli uomini a migliorarsi, o se piuttosto accada l’esatto contrario. Chi scrive teme che sia vera la seconda ipotesi.

C’è una diffusa indisponibilità a fare i conti con il male. Ci si protegge piuttosto dentro una paratia morale, in cui la condanna somiglia a una rinuncia. La condanna corale e senz’appello di Barbara Palombelli è indizio di questo fenomeno. Non vale attribuire la sua sproporzione al potere di amplificazione dei social. Che sono un mezzo. Il fatto è che il non sentire ragioni sta diventando un rifiuto a capire, a vedere, a sentire. È un riflesso condizionato dell’emergenza, che pure è reale. Perché quarant’anni fa in Italia si contavano oltre mille omicidi all’anno, e un centinaio erano delitti in famiglia. Oggi il totale non arriva a trecento, ma quelli contro le donne sono quasi la metà. In un clima generale di riduzione della violenza, c’è una violenza che s’è incistata nel cuore di una comunità e che né le pene, né gli allarmi, né le diffide, né i braccialetti elettronici, né le campagne civili riescono a scalfire. Forse è l’ora di chiedersi se c’è qualcosa che non va nel modo di raccontarla. Se il segno così moralmente definito di questa cultura dell’emergenza non scateni l’effetto paradossale renderla invisibile.

Questa domanda interpella i tre linguaggi con cui una democrazia si rappresenta: il politico, il giudiziario e il giornalistico. Il loro racconto muove da diversi punti di osservazione, ma tutti e tre stanno tra due coordinate, che delimitano da estremi opposti il discorso pubblico: la libertà e la morale. Dove l’una prevale, l’altra soggiace. Non è facile trovare il punto di equilibrio in una tensione dialettica tra le due, dove la libertà espressiva coincide con la responsabilità.

Prendiamo la più spinosa delle questioni che il discorso pubblico si pone quando racconta un femminicidio: l’eventuale infedeltà della vittima nella relazione di coppia. Ha un senso indagare e raccontare il tradimento? Nel processo può servire a spiegare, mai a giustificare. Nel giornalismo non c’è alcuna ragione di giustificare, perché non c’è, o non dovrebbe esserci, alcuna sentenza da emettere. E tuttavia il dovere diritto di spiegare può diventare l’involontario presupposto di una condanna morale. Per evitarlo occorrono tutta la cultura, la sensibilità, la misura e il distacco che un racconto così privato richiede. E tuttavia è immaginabile, contestualizzando un delitto, omettere un dettaglio come l’adulterio, quando pure questo è essenziale a spiegare? Potremmo rispondere con una buona dose di ipocrisia che sì, è meglio e giusto sorvolare. Senonché sarebbe la cronaca di questi giorni a smentirci. A Vicenza una ventunenne, moglie e madre di un bimbo di due anni, viene uccisa in casa da un uomo di trentotto, che poi si toglie la vita. Tutti i media, dal Corriere della Sera a Fanpage, non rinunciano a raccontare l’assassino come «quell’amico padovano che frequentava da alcuni mesi e che sarebbe stato geloso di lei», o come «una presenza maschile assidua in quella casa, quando il marito della donna era al lavoro». Questo per dire che il giornalismo tutto, quello sotto accusa e quello che giudica e condanna, non è senza macchia. Ancorché si misura talvolta con problemi complessi, talvolta senza avere competenze adeguate. Come nel caso della cronista che, nell’incipit di una cronaca sul femminicidio di una giovane veronese, la definisce «bella e impossibile», trasformando la frustrazione patologica dell’assassino in una colpa della vittima.

La sua gaffe offre il destro ad altri maestri censori per codificare il modo più ortodosso di raccontare un femminicidio. Così si rispolvera uno di quei decaloghi firmati a Palazzo tra un ministro in vena di protagonismo e sedicenti rappresentanze del giornalismo, in cui si fa divieto di accostare al femminicidio «termini fuorvianti come raptus, follia, gelosia e passione». E, da ultimo, «amore». Tutto ineccepibile o, se si preferisce, politicamente corretto. Ma davvero vogliamo credere, e far credere, che quel luogo di mancanza e di rischio, che è l’amore, stia di qua, e la violenza cieca da un’altra parte? Se le domande equivocabili di Barbara Palombelli fossero solo servite a incrinare questa illusione, non si può che ringraziarla di averle pronunciate… così male.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.