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L'equilibrio precario che sta proteggendo i mercati

Sui mercati aleggia da tempo un ottimismo che per molti investitori è quasi snervante contrapposto, paradossalmente, alla certezza che le politiche di stimolo delle banche centrali stiano volgendo alla fine.

Banche centrali e Trump

Il carburante che finora ha spinto i listini, soprattutto quelli Usa, verso grandi traguardi (e nel caso di Wall Street verso veri e propri record storici) è stato rappresentato, da novembre ad oggi, dal fattore Trump e dall'agenda business friendly che ha contraddistinto tutta la sua campagna elettorale. Adesso (IOB: 0N5I.IL - notizie) , però, quelle certezze sono venute meno, sopratutto in vista dei sempre più numerosi e complessi problemi che la nuova amministrazione deve affrontare sia in sede internazionale, con tutte le conseguenze sul fronte valutario; in primis per il dollaro, sempre più debole che dall'inizio dei problemi della nuova amministrazione (leggi bocciatura della riforma sanitaria che avrebbe dovuto sostituire l'Obamacare) tanto da arrivare a perdere l'1,7% sul dollaro dal giorno in cui il Congresso ha bloccato l'arrivo della nuova riforma. Ma da un lato il calo del biglietto verde sulla moneta unica può rappresentare un vantaggio per l'economia Usa. Dall'altro lato restano ancora le banche centrali a dettare legge e se finora hanno condizionato l'andamento verso una politica di stimoli, adesso hanno avvertito l'esigenza di invertire la rotta. A livello pratico lo ha già fatto la Fed, con una serie di rialzi sui tassi di interesse che hanno portato la forbice di riferimento tra l'1% e l'1,25%. Le altre banche, invece, si sono finora fermate al livello teorico, ovvero hanno evidenziato il miglioramento di base dell'economia (come per il caso della Bce (Toronto: BCE-PRA.TO - notizie) ) o i dati macro in miglioramento (come per la BoJ) ma hanno preferito non cambiare lo status quo. Eppure i mercati non hanno accennato alcun movimento di ripiegamento.

Crescita sì, ma con cutela

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Il motivo, in questo caso, è la consapevolezza che la presenza delle strategie di stimolo è qualcosa che sfiora l'operazione di marketing dal momento che è innegabile, per il Vecchio Continente, una situazione di crescita, seppure lenta, di fronte alal quale, però, la Bce non ha intenzione di prendere alcun provvedimento, tanto che nell'ultima riunione Mario Draghi, governatore dell'istituto centrale, ha confermato come l'argomento non sia stato nemmeno discusso. Non spaventa, però, nemmeno il processo iniziato dalla Fed: in questo caso il motivo è presto detto: i numeri sono ampiamente a favore di un'interpretazione positiva del trend economico di base ma resta sempre il fattore salariale (gli stipendi crescono ancora troppo poco) e quello dell'inflazione (ancora lontana dal target del 2% e in aumento troppo lento per riuscire ad essere raggiunta in tempi rapidi). Il problema del costo della vita affligge anche la Bank of Japan la quale, a fronte di un miglioramento della situazione economica, ha aumentato proiezioni sul Pil 2017 portandolo all'1,8% e sul prossimo anno fiscale all'1,4% contro previsioni che, in precedenza, erano invece ferme al +1,6% e +1,3%; nulla però ha potuto contro il target dell'inflazione, il cui raggiungimento è stato nuovamente posticipato al 2019. Quello dell'inflazione, come detto, è un comdo alibi morale che può permettere alle banche centrali di continuare a giustificare le politiche espansioniste.Un alibi che trova radici forti nel blocco dei salari e nelle quotazioni minime del petrolio, elementi che, a loro volta, sembrano anch'essi condannati all'immobilismo.

L'equilibrio perfetto?

Insomma, da qualsiasi parte si guardi, si riesce sempre a trovare un motivo per non temere un crollo nonostante non ci siano grandi fattori di svolta verso un irrigidimento che, però, resta ancora una volta solo un'opzione annunciata per il futuro anche nel caso di chi, come appunto la Fed, la sta già praticando in maniera molto soft. Tanto soft da mettere in cantiere anche un possibile rinvio della prossima stretta, inizialmente prevista per dicembre ma tuttora ben lontana dall'essere confermata. Per Washington, infatti, non sembra esserci più quella cavalcata trionfante verso la ripresa: il primo trimestre non ha regalato che un fiacco 1,4% sul Pil, meno della metà di quanto fissato come target dalal Casa Bianca che crede ancora in un +3% per quest'anno. Non spaventa più nemmeno la paura di una bolla sui tecnologici: i FAANG (Facebook (NasdaqGS: FB - notizie) , Amazon, Apple (NasdaqGS: AAPL - notizie) , Netflix (Xetra: 552484 - notizie) e Google alias Alphabeth) sono scambiati a poco più di 23 volte gli utili contro una media di 22 ma anche ben lontano da quei 70 che a suo tempo precedettero lo scoppio delle dotcom.

Morale della favola: i mercati sfruttano l'equilibrio perfetto tra un'economia in crescita abbastanza da rendere ottimisti ma non troppo da poter fare a meno del doping delle politiche monetarie. Il problema è sapere quanto durerà...

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