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L'industria del Web in rivolta contro Trump

Alla fine è accaduto proprio quello che in molti temevano accadesse: una parte di Wall Street si è rivoltata contro Trump.

La protesta dei 97

A guidare la rivolta, i giganti del web, capitanati da Google e Apple (NasdaqGS: AAPL - notizie) che hanno chiamato in causa anche tutti gli altri esponenti del settore, da Microsoft (Euronext: MSF.NX - notizie) passando per Twitter (Francoforte: A1W6XZ - notizie) fino ad arrivare a Netflix (Xetra: 552484 - notizie) . 97 in totale, con l’unica eccezione di Amazon. Il motivo? I provvedimenti anti immigrazione bloccano per tre mesi l’ingresso negli Usa dei cittadini provenienti da 7 paesi considerati a rischio terrorismo. Peccato che 1) nell’industria della Rete, gli immigrati rappresentino il 37% della forza lavoro divisi tra sviluppatori, traduttori, programmatori; 2) pone dei limiti alla libera circolazione delle persone intese come risorse per l’industria, rendendone perciò la reperibilità più difficile e costosa, così come anche l’arruolamento; 3) il provvedimento nato, in teoria, per proteggere la sicurezza nazionale (ma che dal bando esclude nazioni come il Qatar e l’Arabia Saudita, dalle quai a suo tempo vennero gli attentatori delle Torri Gemelle) nuoce gravemente all’industria informatica statunitense (la Silicon Valley è da sempre motivo di vanto e un fattore di grande competitività internazionale) andando a scontrarsi con un altro punto cardine delle teorie della politica di Trump: il protezionismo.

Il contenuto del documento

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Il testo sottolinea il fatto che è proprio al contributo fornito da immigrati che si devono diverse innovazioni decisive per lo sviluppo dell’industria, anche delle comunicazioni, oltre alla nascita stessa di molti grandi nomi dell’informatica, come Apple, esempio più eclatante tra tutti, e le relative gestioni, con Microsoft che, di fatto, deve il suo rilancio a livello internazionale ad un immigrato di origini indiane. Non per niente, sempre nel documento firmato dalle multinazionali, si fa notare come poco meno della metà delle 500 grandi aziende della celebre lista di Fortunes (per la precisione 200 su 500) siano state fondate da immigrati. Anche per questo motivo c’è pure Levi Strauss, produttore di jeans (quanto di più made in Usa esista nell’immaginario collettivo) tra i firmatari dell’amicus bief, cioè nel testo presentato ai magistrati che si occupano dell’eventuale liceità del provvedimento, e che ha valore di materiale informativo per le autorità, fornito da soggetti terzi, tecnicamente estranei ma che per un qualsiasi motivo si trovano coinvolti nelle conseguenze del decreto preso in esame. Risale infatti a venerdì scorso la sentenza di James Robart che considerava incostituzionale il bando presidenziale bloccandone l’applicazione, sentenza che la Corte d'Appello ha confermato ieri.

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