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Marco Bentivogli: "Il digitale scongela spazio e tempo del lavoro"

Marco Bentivogli (Photo: Base Italia)
Marco Bentivogli (Photo: Base Italia)

“Il digitale sta scongelando le dimensioni del tempo e dello spazio e questo significa che non avrà più senso lavorare cinque giorni a settimana. Si lavorerà per progetti, dentro una dimensione in cui il contributo cognitivo conterà di più e permetterà di liberare più tempo per le persone”. Marco Bentivogli, oggi coordinatore della start-up civica Base Italia, è uno che il mondo del lavoro lo conosce bene. Ha fatto la gavetta negli anni Novanta, quando ha coordinato i lavoratori under 35 dei metalmeccanici della Fim-Cisl, fino ad arrivare alla segreteria nazionale del sindacato. Ma intanto il lavoro è cambiato, sta cambiando. Il punto di partenza del suo ultimo libro, “Il lavoro che ci salverà. Cura, innovazione e riscatto: una visione prospettica” (Edizioni San Paolo), è il tentativo di ritornare a pensare e a raccontare questa trasformazione, con la sua relativa evoluzione. “Solo così - spiega in un’intervista a Huffpost - potremmo realizzare il lavoro nuovo che significa lavorare tutti, insieme e meglio”.

Nel suo libro scrive che serve un nuovo pensiero per sviluppare “politiche e iniziative capaci di distruggere le vecchie retoriche ideologiche sul lavoro, sulla globalizzazione, sul futuro”. Ci fa un esempio della retorica ideologica da cestinare?

Il non considerare il fatto che l’esperienza di vita nel lavoro è profondamente cambiata. Le esperienze che abbiamo ereditato dal Novecento sono oggetto di mutamenti o messe completamente in discussione. Dobbiamo entrare dentro questo cambiamento. Il digitale ha scongelato lo spazio e il tempo del lavoro, cioè dei luoghi di lavoro e degli orari. Per un Paese come il nostro che identifica il lavoro non con ciò che il lavoratore fa, ma il luogo, in un ufficio invece che in fabbrica, è un bel salto da fare.

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Cosa sta succedendo dentro i luoghi di lavoro?

Non è solo una questione di cambiamento tecnologico: questa ha una grande forza di abilitare un cambiamento che però è tutto di senso e significato. Il tema riguarda il pensiero e la cultura del lavoro. Paradossalmente un aspetto che è stato sempre messo in secondo piano, cioè gli aspetti legati alla soddisfazione, al benessere all’occasione di relazioni e di crescita delle lavoratrici e dei lavoratori. Questa è la chiave di volta perché sta assumendo progressivamente sempre più importanza. Il lavoro non è rappresentato solo dalle condizioni di lavoro e retributive, ma anche dal suo ruolo in termini di crescita e relazione. Il tema dei temi è quando si riesce a lavorare tutti, insieme e meglio.

Il digitale come impatta su questa visione?

Mi preoccupa la scarsa consapevolezza con cui non ci si sta preparando a processi già in corso. La prima cosa da fare è cambiare una contrattualistica in cui c’è molto contorno, ma che riguarda sostanzialmente ancora uno scambio tra una prestazione lavorativa e un salario. Il lavoro invece diventerà sempre più una relazione tra un progetto e il benessere del lavoratore. Una relazione in cui crescono libertà e autonomia, ma dentro una costruzione progettuale che richiede una maggiore responsabilità e fiducia reciproca e autentica.

Se cambia la natura del contratto tra il datore di lavoro e il lavoratore però cambia un po’ tutto. L’azienda come luogo del lavoro è destinata a non avere più senso?

L’azienda, il luogo di lavoro, deve essere più attento a dimensioni nuove. Lo spazio di lavoro è ancora troppo spesso lo scatolificio scrivano-centrico o una fabbrica con le linee di montaggio fordiste, faticose e insicure. Deve diventare un luogo che aumenta la possibilità di lavorare insieme. Solo se un’impresa è una comunità da custodire allora diventa forte. Il concetto alla base di questo processo è l’umanità aumentata: i lavoratori possono essere imbattibili rispetto alle macchine e agli algoritmi solo se si valorizza la dimensione dell’umanità. Questo aspetto è stato sacrificato per troppo tempo.

In questa nuova visione quale compito spetta all’impresa?

La responsabilità sociale delle imprese non può essere un accessorio da convegnistica: è stato un ambito in cui si è fatto troppo marketing di brand e poche politiche. Nella cultura organizzativa dell’impresa bisogna introdurre l’elemento di cura delle persone. L’efficienza deve coesistere con la cura della comunità del lavoro: questo significa assumersi sempre le responsabilità nei confronti del territorio e delle persone. Significa anche non dare la colpa a nemici astratti: la globalizzazione o altro. Chi guida l’impresa deve prendersi cura del futuro delle persone, ogni giorno, valorizzando le competenze più di ogni altro patrimonio.

I licenziamenti delle ultime settimane hanno una traccia completamente opposta. Multinazionali e fondi stranieri che non si fanno scrupoli a chiudere stabilimenti, un antagonismo rinnovato tra l’impresa e i lavoratori. Non crede che il percorso da fare sia molto lungo e impervio?

Non mi sembra che ci sia questa grande differenza tra aziende italiane e multinazionali, basta vedere molte cooperative della logistica. Gli episodi delle ultime due settimane dimostrano che c’è un cinismo aziendale che non deve avere più spazio nel Paese e men che meno nelle relazioni industriali. C’è troppa retorica sulle persone al centro del mondo del lavoro: più la si evoca e più i lavoratori sono considerati invece dei numeri. La fascia alta della competitività delle aziende fonda il suo valore sul rispetto dell’ambiente e dei lavoratori. Il neo umanesimo industriale deve poggiare su aziende che rispettano e che per questo sono più forti. Nessuno fa tesoro di quel che accade e si ripetono sempre gli stessi errori.

Insomma va coltivata una nuova narrazione del lavoro.

Esattamente. Bisogna ritornare a spendere le parole del lavoro. Più abbiamo la capacità di raccontare il lavoro e anche di pensarlo, più potremmo realizzare il lavoro nuovo. Questo implica che sarà sufficiente lavorare molto meno: il digitale che scongela tempo e spazio implica che non avrà più senso lavorare cinque giorni a settimana. Insieme alla Grecia siamo il Paese che in Europa lavora più di tutti e che ha i salari più bassi, a fronte della produttività più bassa. Bisogna scegliere una via alta del lavoro, non fatta di olio di gomito ma di tecnologia, di nuovi sistemi di organizzazione del lavoro, di competenze delle persone. Oggi, infatti, il lavoro soffre proprio perché mancano nuove narrative che propongano un comune denominatore e un senso a tutte le attività umane ad esso connesse e rischiano di prevalere le “bufale” sulla fine del lavoro, le prospettive catastrofiste e le retoriche sull’impoverimento generalizzato del lavoro.

Diciamocelo chiaramente: oramai dei lavoratori si parla solo quando vengono licenziati o quando sono in attesa della cassa integrazione. Anche qui non le sembra che siamo molto distanti da un mondo del lavoro animato da relazioni non conflittuali?

La strada è lunga, ma ci sono molti fattori che rendono inevitabile ripensare il lavoro. In questo un contributo straordinario viene da Papa Francesco che nelle diverse encicliche e in vari discorsi ha saputo mettere in luce un pensiero fortemente innovativo che va raccolto. È vero: oramai dei lavoratori ci si occupa solo se sono disperati o morti. Da quando la fabbrica non è più il luogo della rivoluzione, e i lavoratori ben lontani dall’essere il soggetto rivoluzionario, per il mondo che dovrebbe pensare, non esistono. Ma contrariamente alle bufale sulla fine del lavoro e sui sussidi per tutti, il lavoro cambierà.

Quali bufale sulla fine del lavoro?

Quelle che raccontano dei robot che cancelleranno i posti di lavoro. Bisognerebbe vedere prima la densità della robotica (numero di robot installati ogni 10mila lavoratori): i primi quattro Paesi al mondo che hanno una densità più alta sono anche i Paesi che hanno la disoccupazione più bassa. In Italia bisogna usare parole chiare su quello che si vuole fare. In un Paese in cui le politiche hanno quasi tutte fallito bisogna rimettere il lavoro al centro. In solitudine lo ripeto da oltre sei anni: la sfida è aperta, dipende da noi. Il World Economic Forum (2018) dice: si cancelleranno 75 milioni di posti di lavoro, poi aggiunge che se ne creeranno 133 milioni. C’è un saldo positivo di 58 milioni che si scaricherà in chi genererà ecosistemi capaci di anticipare e accogliere i mutamenti puntando sulle competenze delle persone.

Torniamo un attimo all’impegno delle imprese. Se il lavoratore avrà più autonomia in termini di spazio e tempo, questo significa che l’asticella di quello che il datore di lavoro chiede in cambio salirà?

Anche qui bisogna cambiare. Il paradigma fordista, basato sul controllo a vista dei lavoratori e della produzione, è inefficace. Oggi le organizzazioni aziendali vanno costruite attorno alla libertà responsabile, con il “controllo” non crescono le competenze delle persone. E lo smart working sta crescendo anche nel manifatturiero. Ho visitato Nokia Italia: su cento tecnici di laboratorio, che fanno in parte anche un’attività manuale, solo sei erano in presenza, mentre gli altri 94 hanno una postazione da remoto a casa. Bisogna fare in modo che i lavoratori abbiano sempre più autonomia, che non significa liberi tutti, ma allo stesso tempo più responsabilità legata al progetto di lavoro. Bisogna liberarsi del nichilismo che va dalla California ai populisti in Italia e altrove.

Cioè?

Non bisogna liberarsi dal lavoro, ma nel lavoro. Il tema del riscatto dei lavoratori passa da qui.

Nel suo libro scrive che “andrà in cantina il vecchio linguaggio della nave perché il futuro del lavoro è femmina. Non donna, femmina”. Perché?

È un messaggio fortissimo che ho imparato da Silvia Zanella, anche lei di Base Italia: le competenze sono sempre più soft, il problem solving evoluto premia quel tipo di capacità che è tipica delle donne di leggere le complessità, contemporaneamente anche le gerarchie devono essere meno maschili, più inclusive, valorizzare le diversità. Serve il codice affettivo materno anche nel lavoro e bisogna smettere di chiedere alle donne di misurarsi sul terreno degli uomini, soprattutto quando è un campo tutto da ripensare.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.