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Mauro Berruto: "Tanta attesa e poca festa, sono Olimpiadi ad alto impatto psicologico"

Berruto con Biles e Osaka (Photo: ANSA)
Berruto con Biles e Osaka (Photo: ANSA)

“Non so dire se ai Giochi di Tokyo ci sia più o meno pressione psicologica sugli atleti rispetto alle Olimpiadi del passato. Tre elementi però possono aver influenzato la serenità degli atleti: l’attesa e l’incertezza dei Giochi, l’impossibilità di vivere l’atmosfera del villaggio olimpico e l’assenza del pubblico”. Mauro Berruto, ex CT della Nazionale di pallavolo maschile italiana, intervistato da Huffpost, dà queste risposte al perché proprio ai Giochi di Tokyo 2020 siano emerse difficoltà psicologiche di alcuni atleti particolarmente attesi.

È il caso di Simone Biles, leggenda della ginnastica americana, la protagonista più attesa delle Olimpiadi, che ha dato forfait nel mezzo della gara per colpa dei “demoni nella mia testa”, ha spiegato. Stress e pressione psicologica che le hanno impedito di proseguire i Giochi. La stessa ansia vissuta anche dalla tennista Naomi Osaka, scelta come ultimo tedoforo delle Olimpiadi, eliminata al terzo turno dal torneo di Tokyo 2020. “Per me ogni sconfitta è una delusione, ma oggi sento che questa delusione fa schifo più delle altre. Sono alla mia prima Olimpiade, e non sono stata capace di reggere questa pressione” ha affermato dopo il match.

Mauro Berruto alle Olimpiadi c’è stato due volte. Ai Giochi di Atene del 2004, quando era nello staff della Nazionale di pallavolo e ha visto la squadra vincere la medaglia d’argento. Nel 2012, ai Giochi di Londra, quando ha portato la sua squadra, da allenatore, a vincere il bronzo.

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Perché, secondo lei, il tema della pressione psicologica sugli atleti è emerso proprio ai Giochi di Tokyo?

Non so se ci sia più o meno pressione in questi Giochi olimpici rispetto al passato. Forse se ne parla di più perché gli atleti sono arrivati in condizioni non normali ai Giochi. L’attesa di più di un anno. Il dubbio fra gli addetti ai lavori, fino a pochi giorni prima della cerimonia di inaugurazione, se i Giochi ci sarebbero stati. Si è arrivati con un impatto emotivo non comune. Poi, gli atleti di quest’anno non avuto la fortuna di vivere la vita del Villaggio olimpico. Io ci sono stato e ho ben chiaro quanto fosse meraviglioso. Invece quest’anno immagino una vita fatta di tamponi, distanziamenti e procedure anti-Covid. E poi, il terzo elemento che può aver influenzato gli atleti è l’assenza del pubblico, che è un ossimoro. Le Olimpiadi, sin da quando sono stati inventati, sono sempre stati immaginati perché ci fosse una performance di fronte al pubblico. La somma di queste cose fa vivere un forte carico emozionale.

Ha parlato dell’atmosfera del villaggio olimpico, che cosa intende?

È l’esperienza più vicina al Paradiso. Nella sua natura prevede il fatto che le distanze siano annullate, che ci sia commistione di corpi, bellezza, popoli. Gente che si siede mangiare insieme in mensa. Il lottatore afghano che fa la fila davanti al miliardario dell’Nba. Ed è un ambiente magico che si crea ogni 4 anni e poi si dissolve. Vivere il villaggio olimpico privandolo di quell’aspetto, come è accaduto quest’anno, è un’esperienza contro natura. Soprattutto per coloro che hanno tante responsabilità, che sono chiamati a vincere. Perché tra gli atleti ci sono coloro per cui già solo partecipare ai Giochi è una vittoria, e altri che invece sono lì per una medaglia. Non è un caso che coloro che hanno parlato di pressione psicologica siano tra questi ultimi.

Per ora sono soprattutto atlete donne ad avere ammesso le loro difficoltà. Come mai?

Le donne hanno il coraggio di dirlo, gli uomini molto meno, ma quella stessa pressione appartiene a tutti. In questa occasione però, per l’ennesima volta, le donne dimostrano più coraggio nell’affrontare e nell’esplicitare quel tipo di situazione. Non è un caso che sia stata scelta la Osaka come ultimo tedoforo, che è un’atleta che ha avuto coraggio nell’ammettere già tempo fa le sue problematiche.

Sembra sia un po’ la prima volta che si rivela il tema della difficoltà psicologica, come se prima fosse un tabù. È così?

Anche prima c’erano queste problematiche, è vero però che questa è la prima volta che se ne parla. Prendiamo l’esempio di Simone Biles. C’era il tentativo di far passare qualcosa che non era. Si è detto che la sua era una problematica fisica. Il modo per risolvere le difficoltà invece è affrontare e parlarle. Trovo molto umane, belle e comprensibili le dichiarazioni delle atlete. Si trovano di fronte a qualcosa che in questo momento è più grande di loro. Prendiamo anche l’esempio delle ragazzine di 13 anni che hanno vinto nello skateboard. Stiamo affidando loro una mole di responsabilità. Ma ecco, non è che stiamo chiedendo troppo? Sono felice che possiamo allontanarci dall’idea dell’atleta come macchina da guerra, nuovo modello epico della società contemporanea. Ne scopriamo una dimensione molto più umana, molto più vicina a tutti noi.

Quanto è importante la componente psicologica negli atleti e cosa si fa per allenare la mente a queste competizioni?

La parte mentale è una delle componenti necessarie insieme a quella tecnica, tattica e fisica. Ma queste componenti non hanno sempre la stessa percentuale d’importanza. Ci sono momenti - e i giochi sono tra questi - dove l’aspetto mentale conta il 50 o 70%. Non dobbiamo dimenticare che chi è lì a giocare ha superato un livello di competizione eccezionale. L’aspetto tecnico e tattico sono già fuori dai parametri della normalità. La differenza la fa l’aspetto mentale, che purtroppo, soprattutto in Italia, non si allena sempre in maniera adeguata. Molti considerano che sia un aspetto collaterale. Un allenatore di buonsenso dovrebbe sapere che ha bisogno di affiancarsi ad uno specialista che si occupi di questo lato, che è lo psicologo dello sport. Gli atleti ora urlano con una forza mai sentita prima che la componente mentale è una componente decisiva come le altre. Ed è ora di affidarsi a professionisti.

Se la componente mentale è così importante, allora perché non viene considerata molto?

Non voglio generalizzare, ma è un fatto culturale. È una responsabilità di noi allenatori. Ci sono ancora troppi di noi che ritengono che un atleta debba andare dallo psicologo solo se sta male. Invece è necessario prevenire, con un membro dello staff che si occupi di questo. Io ho allenato anche in altri Paesi e posso dire che l’Italia non è messa benissimo per quanto riguarda l’attenzione a questa tematica.

Anche i social network possono aver avuto un ruolo nella pressione psicologica avvertita da questi atleti?

Sì, credo di sì, in parte. Se tutti i giorni qualcuno sui social smontasse il lavoro che facciamo o ci demotivasse, non staremmo benissimo. Io ho vissuto le Olimpiadi nel 2012. Era un periodo diverso, ma era già un mondo globalizzato. Quando si perde una partita e si cominciano a leggere commenti sarcastici, cattivi, inevitabilmente si è influenzati. Bisogna essere solidi per stare fuori da quel contesto. I social ci sono e non si può modificarli. Bisogna però allenare gli atleti a reagire a ciò che leggono. Serve una preparazione per gli atleti che riguardi anche la propria comunicazione. Simone Biles ha scelto di fare un post su Instagram per spiegare ciò che sentiva. Se un atleta sceglie di fare una comunicazione così importante attraverso un social, è evidente che poi si trovi di fronte a reazioni e conseguenze che deve saper gestire.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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