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Mercato del lavoro, come funziona il modello tedesco che piace a Renzi

Il sistema del mercato del lavoro con il quale la Germania, in meno di dieci anni, ha dimezzato il numero dei senza lavoro portando il tasso di disoccupazione dal 10,5% del 2004 al 5,3% del 2013 è, secondo quanto detto ieri dal premier Matteo Renzi“un modello e non un nemico”.

Proprio grazie alla riforma Hartz, con la quale il governo Schroeder rivoluzionò fra il 2003 e il 2005 il mercato del lavoro tedesco, la Germania ha maturato quegli “anticorpi” che le hanno permesso di portare nel periodo più acuto della crisi economica globale (2007-2013) il proprio tasso di disoccupazione dall’8,7% al 5,3%. Nello stesso periodo, in Italia, la disoccupazione è raddoppiata dal 6,1% del 2007 al 12,2% del 2013.

Nel luglio 2014 il tasso dei disoccupati è sceso addirittura al 4,9%, una percentuale molto lontana dallo 0,6% raggiunto negli anni Settanta, ma comunque la più bassa di tutto il Vecchio Continente.

SUSSIDI DI DISOCCUPAZIONE UNIVERSALI
La ricetta dell’ex executive delle risorse umane di Volkswagen, Peter Hartz, intervenne su di un paese che a quasi tre lustri dall’unificazione si trovava a fare i conti con ben 5 milioni di disoccupati. Uno dei principali interventi è stata l’introduzione dei sussidi di disoccupazione universali, vale a dire estesi a tutti o, meglio, a tutti coloro che dimostrino di essere alla ricerca attiva di un lavoro: se non si accettano le proposte di lavoro le indennità vengono progressivamente decurtate.

MINIJOBS
La riforma Hartz ha previsto buoni per la formazione e ha implementato la rete dei job center e delle agenzie interinali. Il vero cuore della riforma è stata l’introduzione dei Minijob, i contratti di lavoro precario a bassa tassazione e indipendenti dagli accantonamenti previdenziali e dall’assicurazione sanitaria. Quello dei Minijob – la cui retribuzione mensile non supera i 450 euro – è stato un vero e proprio boom: nel 2013 erano ben 7,3 milioni i tedeschi con questo tipo di contratto e per 5 milioni di loro questo contratto rappresentava l’unica forma di reddito. Approfondisci l'argomento.

Riguardo ai Minijob si sono create due scuole di pensiero: i favorevoli sostengono che questi contratti offrano ai genitori tempo libero da dedicare alla famiglia e agli studenti la possibilità di guadagnare denaro in maniera legale, i contrari sostengono che questa formula divarica la forbice fra ricchi e poveri e mina le basi del contratto sociale. Negli ultimi anni, fra i tedeschi titolari di Minijob è cominciato a serpeggiare il malumore: in molti si sono chiesti perché le performance dell’economia tedesca (secondo esportatore al mondo dopo la Cina) non abbiano dato vita a un benessere condiviso, tale da trasformare molti Minijob in lavori veri e propri. In uno studio del 2013, il Ministero della Famiglia tedesco aveva evidenziato quanto fosse alto, per le donne, il rischio che il Minijob divenisse “un programma per la creazione permanente di impotenza e dipendenza economica delle donne”.

REDDITO DI CITTADINANZA
L’altro grande passo della riforma Hartz fu l’introduzione del reddito di cittadinanza per coloro che non trovano lavoro al termine degli studi, un beneficio articolato in contributi per la casa, la famiglia e i figli e in grado di garantire l’assicurazione sanitaria.

SALARIO MINIMO GARANTITO
Di fatto, la formula di Hartz si è rivelata un ibrido fra il modello americano (alta flessibilità del lavoro) e la tradizione del Welfare europeo (sostegno a chi cerca lavoro), un mix vincente che ha favorito le assunzioni, ma che sul lungo termine ha indebolito i consumi interni, tanto da spingere i partner europei e l’amministrazione Obama a chiedere al governo di Angela Merkel di aumentare la domanda interna pagando di più il lavoro. Proprio quest’anno, la Germania ha introdotto il salario minimo garantito.

SINDACATI IN AZIENDA
Ma copiare la riforma Hartz e adattarla alla situazione emergenziale del mercato del lavoro italiano potrà dare i frutti sperati? Secondo Enzo Canettieri di Uil la situazione italiana e tedesca è differente, anzi, diametralmente opposta: la ricostruzione economica tedesca del secondo dopoguerra si è realizzata  grazie a una “fitta ed estesa rete di partecipazione e coinvolgimento paritetico di imprese e sindacato”, frutto di una visione post-bellica tesa a “togliere qualsiasi forma di contrasto e conflitto sociale”. In Germania i sindacati sono parte integrante delle aziende e non corporazioni esterne a esse: i membri dei sindacati siedono nei consigli di sorveglianza delle imprese e questo consente un andamento più fluido e meno conflittuale delle trattative riguardanti aumenti salariali e tutele sul lavoro.

Negli stessi anni, in Italia, prevalevano modelli associativi che “predicavano e praticavano la non contaminazione con le tematiche aziendali e che rifiutavano ogni soluzione che non fosse affidata ai rapporti di forza”. Se “il sistema di relazioni industriali e sindacali partecipative e collaborative è sempre stato uno dei pilastri su cui poggia l’economia tedesca”, creando il terreno fertile per il boom economico dell’ultimo decennio in Germania, lo stesso non si può dire dell’Italia. Meglio usare tutte le cautele del caso, dunque. Anche se il modello tedesco resta una formula vincente alla quale tendere, la carta carbone può non essere sufficiente per tirare l’Italia fuori dalle secche della recessione.