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Oltre i paradossi dell’economia

Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer di UBS Wealth Management in Italia, spiega che l’anno scorso l’economia è stata l’assoluta protagonista sui mercati. Le stime degli economisti di inizio anno sono state battute in modo netto, come accade di rado. Il caso dell’Italia è emblematico, all’inizio dell’anno la media delle stime degli economisti prevedeva una crescita di meno dell’1% mentre ora ha raggiunto l’1,5%.

La crescita economica si è rivelata, inoltre, estremamente sincronizzata in tutte le principali aree e, per gli investitori sul mercato azionario, si tratta di un segnale molto positivo perché implica un basso rischio di recessione a breve termine – per esempio, se si dovesse verificare uno shock sui consumi nell’eurozona in un contesto di buona crescita a livello globale probabilmente il commercio estero consentirebbe di evitare di cadere in recessione.

Questi andamenti così positivi, unitamente alle politiche espansive delle banche centrali, hanno consentito di rendere immune il mercato azionario da numerosi eventi politici potenzialmente delicati, dagli Stati Uniti alla Corea del Nord, dalla Spagna all’Olanda e alla Germania.

Per il 2018, gli economisti si aspettano una crescita del 3,8% a livello globale, un livello simile allo scorso anno - spiega Matteo Ramenghi -. I contributi alla crescita mondiale saranno marginalmente diversi rispetto allo scorso anno perché gli Stati Uniti beneficeranno della riforma fiscale di Trump mentre l’eurozona è attesa in decelerazione per via della forza dell’euro. La Cina si confermerà, con tutta probabilità, il principale motore di crescita dell’economia mondiale contribuendone poco meno di un quarto. La crescita cinese non è priva di rischi in considerazione del rapido aumento dell’indebitamento delle aziende controllate dalle stato, ma un incidente di breve termine è improbabile con l’economia lanciata a una crescita superiore al 6%.

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Quanto sopra esposto riassume le previsioni di breve termine, ma quello che è più importante per le imprese, la società e gli stati è che siamo nel bel mezzo di una vera e propria rivoluzione tecnologica cominciata all’inizio del secolo. La robotica prende sempre più piede, siamo tutti connessi a internet – così come molti degli oggetti che utilizziamo quotidianamente e che producono una quantità di dati senza precedenti. L’intelligenza artificiale è la nuova frontiera che renderà le macchine sempre più in concorrenza con gli umani.

La finanza è permeata di questo cambiamento strutturale, i titoli tecnologici sono stati assoluti protagonisti negli ultimi anni e, oggi, le prime cinque società mondiali per capitalizzazione di mercato sull’indice globale sono tutte tecnologiche (e statunitensi) - spiega Matteo Ramenghi -. Un’altra dimensione da tenere in considerazione è legata all’attività automatizzata sui mercati che, negli Stati Uniti, ormai vede ben oltre il 50% degli scambi decisi da algoritmi senza l’intervento umano. L’eurozona resta indietro su questo fronte, ma anche da noi si registra una rapida crescita.

Sono sicuro che molti lettori non abbiano una percezione di dati economici così buoni che una sensazione positiva riguardo la rivoluzione tecnologica in corso. In effetti, qualche meccanismo nel rapporto tra tecnologia-economia-società sembra essersi inceppato. Prima di tutto, la crescita economica globale – seppur migliore rispetto agli anni successivi alla crisi finanziaria – rimane molto al di sotto dei livelli raggiunti nei decenni precedenti e, soprattutto, negli anni ’50, ’60 e ’70. Non si tratta i tassi di crescita che possano far pensare a un salto tecnologico e produttivo in corso. Del resto, nonostante le iniezioni di liquidità senza precedenti da parte delle banche centrali e tassi d’interesse negativi in buona parte delle economie avanzate, anche l’inflazione resta ben al di sotto dei target dei banchieri centrali.

Il dato che, però, più di ogni altro mette in discussione la rivoluzione tecnologica in corso è quello della produttività, che sta crescendo a un tasso molto inferiore rispetto al passato, sia negli Stati Uniti che nell’Eurozona - spiega Matteo Ramenghi -. Come dichiarato da Robert Solow, Nobel per l’economia nel 1987: “Vediamo l’era dei computer ovunque tranne che nei dati di produttività”. Alcune tecnologie dirompenti possono in effetti avere un impatto distruttivo su alcuni settori tradizionali, pensiamo alla reazione dei titoli delle catene di supermercati statunitensi in seguito all’acquisizione di Whole Foods da parte di Amazon: hanno perso oltre il 10% nei tre mesi successivi sottoperformando l’indice del 12%.

I paradossi che abbiamo illustrato, insieme ad alcune scelte politiche delle economie avanzate e alla globalizzazione, hanno portato a una crescente polarizzazione della società. Dall’apice della crisi finanziaria, l’inizio del 2009, il mercato azionario statunitense è praticamente triplicato in valore, il prezzo degli immobili ha avuto un andamento quasi altrettanto strabiliante mentre, nonostante la disoccupazione sia scesa ai minimi storici, i redditi delle famiglie americano sono rimasti per lo più stagnanti. Un confronto con l’eurozona è difficilmente realizzabile perché la nostra area economia ha politiche economiche diverse nei vari paesi, ma è chiaro che lo scenario è, tutto sommato, simile.

Questi crescenti diseguaglianze, inevitabilmente, hanno prodotto sui due lati dell’Atlantico una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei rappresentanti politici creando terreno fertile per l’affermazione di varie forme di populismo che, in alcuni casi, ha raggiunto anche ruoli di governo - spiega Matteo Ramenghi -. L’eurozona è un buon esempio delle implicazioni in termini di frammentazione politica. In Spagna è stato necessario quasi un anno per formare un governo dopo le elezioni del 2016, in Olanda 225 giorni, in Germania continuano discussioni su diverse possibili alleanze dallo scorso settembre, mentre in Austria l’estrema destra ha preso dei ministeri chiave. L’Italia, ovviamente, non è immune da questa tendenza e si presenta al prossimo voto del 4 marzo con sondaggi che fanno pensare alla formazione di una grande coalizione o, forse, a una prolungata ingovernabilità.

All’edizione 2018 del UBS Forum, abbiamo quindi tentato insieme a Alberto Vincentelli, Professore di Tecnologia e Innovazione all’Università della California, Berkeley, e al nostro capo economista globale Paul Donovan di rispondere ad alcune domande: perché le nuove tecnologie non spingono la produttività? Si tratta di tecnologie deflattive? Chi beneficia della rivoluzione tecnologica? Quali sono le conseguenze politiche, economiche e per i mercati?

Non vi è una risposta unica a queste domande, ma una combinazione di fattori che, insieme a scelte di politica economica, hanno contribuito alla situazione attuale. Inoltre, bisogna mantenere un approccio flessibile riguardo i dati economici, che vengono prodotti sulla base di indicatori creati nel secolo scorso che, a volte, mal si adattano alla realtà odierna.

Almeno inizialmente, un salto in avanti dei sistemi produttivi comporta una perdita di occupazione - spiega Matteo Ramenghi -. Alcune stime suggeriscono che tra il 10% e il 14% dei posti di lavoro saranno persi. Quello che è successo in seguito alle altre rivoluzioni industriai è che, successivamente lo shock iniziale, è aumentata la domanda di beni che divenivano più accessibili (pensiamo alla catena di montaggio e alla Ford T, la prima auto accessibile), la domanda è divenuta sempre più sofisticata portando a nuova creazione di posti di lavoro. Si tratta di un processo lungo e con non poche incertezze.

La tecnologia di per sé non è inflattiva o deflattiva, inizialmente una rivoluzione tecnologica può portare ad un abbassamento dei prezzi di alcuni beni ma, in passato, tutte le rivoluzioni tecnologiche hanno portato a periodi di inflazione elevata. Oggi vediamo che è cambiata la modalità di consumo di alcuni beni e servizi (pensiamo alla musica con il passaggio dai CD alle applicazioni che mettono a disposizione una libreria musicale) facendone crollare il prezzo. Non siamo arrivati al passaggio successivo, la formazione di una nuova domanda o una fase di tale ottimismo da comportare un aumento generalizzato dei prezzi.

Occorre infine ricordare che non tutte le innovazioni sono destinate necessariamente ad aumentare la produttività e, di conseguenza, a produrre ricchezza. Alcune possono essere solo mirate al miglioramento della qualità della vita che è comunque una ricchezza in sé, anche se sfugge alle statistiche e ai dati economici tradizionali che vengono prodotti oggi.

I temi trattati sono talmente pressanti che di 17 obiettivi che l’ONU si è data per uno sviluppo sostenibile, oltre la metà sono legati ad attenuare le diseguaglianze e creare modelli economici più inclusivi, un numero maggiore rispetto aglio obiettivi legati all’ambiente e al cambiamento del clima, di cui più spesso si parla.

Quali sono le conclusioni di tutte queste considerazioni? La trasformazione tecnologica in corso è inarrestabile e il rischio più grande per un paese è rimanere indietro sul fronte degli investimenti e delle competenze - spiega Matteo Ramenghi -. Trincerarsi dietro il populismo è un pericolo serio che potrebbe portare un paese a divenire marginale da un punto d Autore: Pierpaolo Molinengo Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online