Pechino adesso fa più paura di Atene
Sventata l'uscita della Grecia dall'euro, con tutte le conseguenze a catena che questo avrebbe potuto comportare, c'è un'altra preoccupazione che sta prendendo corpo sul mercato. Il crollo della Borsa cinese potrebbe infatti essere il preludio a un brusco rallentamento del gigante asiatico, ormai la prima economia al mondo (mentre la Grecia non conta più del 2% del Pil europeo).
Crollo del 30% in un mese
Tra metà giugno e metà luglio la Borsa di Shanghai ha ceduto oltre il 30%. Un vero e proprio crollo che ha ben pochi precedenti nella storia finanziaria cinese. Soprattutto perché il timore è che il trend discendente non si sia del tutto esaurito. La situazione ricorda da vicino quanto accaduto agli inizi degli anni Duemila sui listini occidentali con lo scoppio della bolla legata alla new economy. Ora come allora sotto tiro ci sono soprattutto i titoli delle aziende tecnologiche, che nell'ultimo anno in Cina hanno triplicato, e a volte anche quadruplicato, il proprio valore. Prima di deflagrare nelle ultime settimane. Le prime vendite hanno portato molti investitori a rendersi conto che i multipli non avevano alcuna logica rispetto ai fondamentali e da quel momento si è scatenato il panico.
L'intervento delle autorità
Le autorità cinesi sono intervenute prontamente, con um'immediata immissione di liquidità e lo stop a nuove quotazioni. Inoltre sono stati sospesi molto titoli e si è deciso di autorizzare nuovi metodi di indebitamento per permettere agli investitori di avere maggiore liquidità da immettere nel mercato finanziario. Almeno a prima vista l'intervento sembra aver funzionato, dato che nelle ultime sedute non vi sono stati altri scossoni. Anche se non va dimenticato che questi interventi d'emergenza non potranno diventare strutturali, per cui la controprova si avrà solo con il ritorno alla normalità.
A questo proposito va poi considerato che la Borsa di Shanghai non funziona come le grandi piazze finanziarie occidentali, sia per quel che concerne gli orari (le contrattazioni vanno dalle 9.30 alle 11.30 e dalle 13 alle 15, anziché dalle 9 alle 17.30 in maniera ininterrotta), sia in materia di controlli (che restano molto forti da parte delle autorità di Pechino, dagli accessi alle contrattazioni ai broker operativi). Questo fa sì che siano ancora pochi investitori occidentali nel mercato azionario cinese e ha assicurato un effetto immediato all'intervento statale.
Il gigante rallenta il passo
Proprio la limitata apertura al mercato potrebbe tuttavia costituire nel medio termine una ragione di disaffezione per gli investitori internazionali. Una prospettiva che il gigante asiatico non può permettersin quanto starebbe a significare un cambio di rotta rispetto alla progressiva apertura degli ultimi anni.
Sta di fatto che sul mercato la preoccupazione è crescente, dato che i problemi non possono essere confinati al solo ambito finanziario. Anche dall'economia reale i segnali che arrivano non sono propriamente rassicuranti. Con l'Europa che arranca e gli altri mercati emergenti alle prese con numerosi squilibri, la domanda di prodotti cinesi nel mondo non cresce più ai ritmi di qualche anno fa. Le autorità di Pechino lo avevano messo in conto e di fatti sono da tempo impegnate per convertire l'asse portante della crescita dall'export ai consumi interni. Ma si tratta di un processo che richiede tempo e non è immune da inciampi. Nel frattempo, la crescita del Pil non può scendere sotto il 7-7,5% annuo per sostenere l'enorme massa di persone che continuamente si sposta dalle campagne verso i grandi centri urbani. Insomma, la situazione è delicata e merita di essere seguita in maniera costante. Soprattutto in estate, quando il calo della liquidità sui mercati tende a favorire brusche escrusioni dei prezzi.