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Perché Draghi accelera e perché i partiti possono frenarlo

Mario Draghi (Photo: Roberto MonaldoEPA)
Mario Draghi (Photo: Roberto MonaldoEPA)

“Puoi dire qualcosa sulle ricercatrici che verranno assunte”. È quando Mario Draghi invita la ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa a tradurre i soldi del Recovery in un messaggio che dia il senso della direzione del lavoro del Governo che la conferenza stampa a palazzo Chigi acquisisce forse il dato più significativo. Non è la suggestione dello Stato a fianco delle scienziate, tra l’altro spinta dall’entusiasmo per il Nobel a Giorgio Parisi. È l’indicazione operativa che misura l’accelerazione del premier sull’agenda di governo. Ci sono i soldi da spendere, le scadenze, i bandi, ma tutto questo disegno per Draghi si tiene in piedi se fin dall’inizio si dà la misura di cosa si sta facendo, meglio di qual è l’obiettivo da centrare. Una consapevolezza che passa dall’indicazione data ai ministri di proporre soluzioni per velocizzare le procedure del Pnrr, ma anche dalla volontà di dare visibilità pubblica a un cantiere che può anche essere diretto dal migliore, ma che si reggerà in piedi, anche oltre il 2026, solo se diventerà anche un sentire comune del Paese.

È tutto tranne che una visione evanescente. E tutt’altro che facile. Il perché di questa difficoltà è data da due elementi. Il primo è riempire di contenuto il titolo del Recovery, quella missione Italia che deve concretizzarsi in una spesa rapida e soprattutto efficiente. Necessaria, ma non esaustiva, anche per trasformare lo sprint del Pil di quest’anno in una crescita strutturale, con tassi più contenuti, intorno all′1,5-2%, ma in ogni caso lineari, opposti alla raffica di Pil anemici del pre-pandemia. Il secondo è il posizionamento dei partiti. La fase emergenziale ha facilitato la dimensione di un lavoro collettivo: chi si sarebbe assunto la responsabilità di fare i capricci con una campagna di vaccinazione da rendere degna di questo nome? La coda velenosa del green pass ha marcato il passaggio alla fase più distesa dal punto di vista dell’emergenza sanitaria e soprattutto ora che l’agenda è affollata di impegni e scadenze, l’atteggiamento dei partiti è tutt’altro che scontato. Il day after delle elezioni amministrative ne ha dato già un assaggio, con le tensioni tra il premier e Matteo Salvini sulla delega fiscale e sulla riapertura delle discoteche.

Ma torniamo all’accelerazione di Draghi. Il premier ha parlato esplicitamente di un metodo di lavoro che si articolerà in una media di due riunioni del Consiglio dei ministri a settimana. Accompagnati, stando a quanto riferiscono fonti di governo, anche dalla volontà di dare visibilità ai risultati di questa corsa. Draghi non è un presenzialista, tantomeno con la stampa. E per questo più di qualcuno, nel Governo e non solo, si è chiesto del perché della conferenza stampa convocata per dare conto della riunione della prima cabina di regia sul Recovery, dedicata all’istruzione e alla ricerca. Sicuramente importante, ma insomma nessuno si sarebbe strappato i capelli se ci fosse stato un comunicato stampa al posto della convocazione dei giornalisti. La decisione di accompagnare la raffica di numeri degli investimenti per gli asili nido invece che per le mense scolastiche si spiega non solo con le ragioni di cui si diceva, quelle della trasparenza, ma anche con la volontà di dimostrare come si sta affrontando la mole di impegni. Perché la dimensione della visibilità è secondaria lo spiega il contenuto stesso di queste conferenze: quello sul Recovery è un work in progress, con dieci tagliole che si attiveranno ogni sei mesi. Se fai allora arriva il pacchetto di soldi successivo, altrimenti no. Anche questo è un rischio, è il prezzo dell’assumersi una responsabilità inedita se si guarda alla storia degli ultimi governi.

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Qui si incastra l’atteggiamento dei partiti. È l’agenda a dire che gli incroci pericolosi sono tanti. Partiamo dal Recovery. Il monitoraggio del Governo, aggiornato al 23 settembre, dice che sono state centrate 13 delle 51 scadenze fissate per fine anno. Ne mancano 38: ventiquattro riguardano investimenti, comprese le norme e gli atti amministrativi per la disciplina di settori specifici, mentre gli altri 27 fanno riferimento alle riforme. L’accelerazione qui Draghi l’ha chiesta ai ministri e il tutto troverà forma in un decreto che il Governo adotterà nelle prossime settimane per semplificare ulteriormente le procedure di attuazione. Il Recovery è forse il fronte meno scivoloso per Draghi perché tra le 38 scadenze da raggiungere sono poche quelle divisive. Il pacchetto sulla giustizia ha quasi finito il suo iter in Parlamento, mentre il piano per le politiche attive del lavoro, a cui sta lavorando il ministro del Lavoro Andrea Orlando, almeno al momento non è entrato nel mirino della Lega. Il pacchetto di investimenti che fa riferimento al Mise di Giancarlo Giorgetti non è tale da sollevare scontri politici come quelli che si sono registrati sulla delega fiscale.

C’è però tutto un pacchetto di provvedimenti che corre parallelo al lavoro sul Recovery. Dentro ci sono questioni divisive. A iniziare dalla legge sulla concorrenza che Draghi vuole approvare entro fine mese: l’inserimento o meno delle norme per modificare l’assetto delle concessioni balneari fisserà un punto di attrito o di equilibrio con le istanze della Lega. Dici concessioni balneari e dici Bolkestein, ma anche una battaglia storica del Carroccio, in un’ultima istanza voti da sottrarre alla grande emorragia di consenso in corso. In contemporanea, entro il 20 ottobre, il Governo dovrà inviare al Parlamento il disegno di legge di bilancio. La manovra avrà dentro sicuramente 22 miliardi (potrebbero essere di più per via delle minori spese sostenute per gli aiuti anti Covid e per altre entrate): un pezzo importante, pari a circa 11 miliardi, potrebbe finire al fisco. Le modalità di intervento sul taglio del cuneo misureranno anche la temperatura dei rapporti tra i partiti e tra i partiti e Draghi su un tema assai sensibile come è quello delle tasse, a maggior ragione che l’intervento va nella direzione di tagliarle. Undici giorni dopo, il 31 ottobre, termina il blocco dei licenziamenti per le piccole e medie imprese. Sono prive completamente o quasi degli ammortizzatori ordinari: durante la pandemia i lavoratori di queste imprese sono stati sostenuti con la cassa integrazione Covid, pagata dallo Stato. La riforma degli ammortizzatori sociali, attesa da mesi, marcherà anche gli equilibri tra il partito del debito buono, che tiene dentro Draghi e l’ala filo-premier della Lega, da quello della necessità di allungare, rendendola di fatto strutturale, la fase di assistenza tipica dell’emergenza: dentro ci sono il Pd, i 5 stelle, ma anche i sindacati. Entro il 31 dicembre si dovrà disegnare il dopo quota 100. Basta il titolo per immaginare accelerazioni e frenate.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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