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Persone e profitti. I Facebook Paper stanno sgretolando l’impero di Zuckerberg

Facebook CEO and founder Mark Zuckerberg testifies during a US House Committee on Energy and Commerce hearing about Facebook on Capitol Hill in Washington, DC, April 11, 2018. / AFP PHOTO / SAUL LOEB        (Photo credit should read SAUL LOEB/AFP via Getty Images) (Photo: SAUL LOEB via Getty Images)
Facebook CEO and founder Mark Zuckerberg testifies during a US House Committee on Energy and Commerce hearing about Facebook on Capitol Hill in Washington, DC, April 11, 2018. / AFP PHOTO / SAUL LOEB (Photo credit should read SAUL LOEB/AFP via Getty Images) (Photo: SAUL LOEB via Getty Images)

Non ha ancora raggiunto la maggiore età, ma il brand Facebook si sta già sgretolando. Il 2021 è l’anno nero per Mark Zuckerberg. Iniziato male, a gennaio, con l’assalto dei manifestanti pro-Trump al Campidoglio, fomentati dalla proliferazione su Facebook di Fake News e appelli al colpo di stato, il 2021 sta procedendo addirittura peggio per il social network con sede a Menlo Park. Da settimane, infatti, sulla stampa internazionale continuano a filtrare documenti e report interni all’azienda che gettano cattiva luce sulle pratiche interne e sulla gestione di questioni delicatissime connesse alla sua attività. Sono i Facebook Papers, documenti diventati di dominio pubblico grazie alla coraggiosa scelta di una gola profonda, Frances Haugen, di fornirli alla stampa e metterci la faccia.

La scarsa trasparenza nel trattamento dei dati degli utenti; una lotta alle notizie false più annunciata, che realmente praticata; gli effetti negativi dei social network sulla salute mentale e fisica degli e delle adolescenti. Il social che voleva connettere il mondo e l’umanità, nella pratica, è un’azienda che, nonostante le buone intenzioni dichiarate dal suo fondatore, sembra aver messo da parte gli sforzi per affrontare i danni reali che ha ingigantito e, talvolta, creato. I documenti parlano chiaro: sono decine, i casi, in cui i dipendenti e i tecnici in forza a Menlo Park hanno scoperto problemi enormi che l’azienda ha poi ignorato. O, peggio ancora, volutamente trascurato.

Forse, però, è meglio partire dall’inizio. Facciamo un passo indietro, di 17 anni. È il 2004. Campus dell’Università di Cambridge (Massachusetts). Facebook – anzi TheFacebook, all’epoca si chiamava così – venne fondato con un obiettivo molto ambizioso. Risolvere uno dei più antichi problemi dell’umanità: ridurre a zero le distanze fisiche. Facebook, grazie ad Internet, ha connesso miliardi di utenti in tutto il mondo. È questa, in pratica, la missione e la storia del social network più famoso al mondo. E dopo 17 anni, Mark Zuckerberg non pare intenzionato a fermarsi. Entro la fine dell’anno, se tutto va bene, Facebook inizierà a ‘battere moneta’. Si tratta della valuta digitale Diem, con la quale miliardi di utenti iscritti al social network potranno fare acquisti senza uscire dalla piattaforma. E non dimentichiamoci del Metaverso. Menlo Park sta puntando milioni di dollari sullo sviluppo di una realtà integralmente digitale. Un luogo alternativo, completamente autonomo – il successore di Internet – dove gli avatar degli utenti vivranno una vita indipendente rispetto alle esistenze degli esseri umani in carne ed ossa. Si potrà andare al cinema, ad un concerto, viaggiare in una città di un continente lontano. Senza muoversi dal divano. Bastano indossare un paio d’occhiali per la realtà aumentata.

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Ma torniamo alla nostra, di realtà. Sì, perché Facebook non se la passa bene. E va avanti così da mesi. I Facebook Papers stanno facendo crollare l’impalcatura sulla quale Zuckerberg ha costruito la sua fortuna. 121 miliardi di dollari di patrimonio personale, secondo gli ultimi dati disponibili. Certo, il 37enne CEO nato a White Plains non rischia di ritrovarsi senza soldi da un momento all’altro. Ma sono lontani i tempi in cui nel mondo – qualcosa come dieci anni fa – veniva venerato come un profeta, un innovatore dotato di poteri taumaturgici. Nel 2017, all’apogeo della sua parabola, era addirittura costretto a smentire una sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti.

Sono passati poco più di mille giorni. Ma sembrano anni luce. Ora – sulla stampa, nel dibattito pubblico, persino al Congresso di Washington – non si fa altro che parlare di Facebook Papers, o Facebook Files. Ma cosa sono? Come racconta l’inchiesta portata avanti da 17 testate giornalistiche americane – coordinate dall’agenzia Associated Press – si tratta di migliaia di pagine di documenti interni all’azienda fondata da Mark Zuckerberg, venuti alla luce grazie a Frances Haugen, l’ex ingegnere informatico addetta alla gestione dei dati in possesso del colosso di Menlo Park. Quest’anno, insofferente alle continue ingiustizie che vedeva consumarsi sotto i suoi occhi, Haugen ha raccolto un enorme faldone di report e analisi interne, e li ha passati al Wall Street Journal. Poi, davanti alle telecamere della CBS, è arrivato il colpo di grazia, con l’intervista in prime-time della stessa Haugen: “Facebook ha sempre preferito il profitto rispetto alla sicurezza degli utenti”. È il dilemma Zuckerberg. Da enormi poteri, derivano grandi responsabilità. Legittimo ricercare il profitto, ma qui ci sono in gioco i dati di miliardi di persone.

Accuse gravissime, quelle lanciate da Haugen, e filtrate sul WSJ tra settembre e ottobre. Secondo quanto affermato dalla whistleblower, Facebook aveva adottato sistemi di sicurezza per controllare la disinformazione prima delle elezioni presidenziali del 2020, ma poi li aveva allentati di proposito dando priorità “alla crescita piuttosto che alla sicurezza”. Proprio l’abbandono di tali sistemi di sicurezza sarebbe corresponsabile anche dell’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso. Una rivelazione clamorosa. Anche perché l’account dell’ex presidente Donald Trump era stato sospeso dai vertici di Menlo Park proprio con l’accusa di aver soffiato sul fuoco della protesta. Grazie ai leaks pubblicati da Haugen e dalla stampa americana, Zuckerberg è ora sotto il fuoco incrociato delle accuse che lo descrivono come un co-responsabile dei fatti di gennaio.

E pensare che proprio Facebook era già stato al centro della bufera quattro anni prima. Alle elezioni presidenziali del 2016, quando venne accusato di aver favorito la vittoria dello stesso Trump. Nei giorni prima delle elezioni dell’8 novembre di quell’anno, circolavano online migliaia, se non milioni, di notizie false sul conto della sfidante democratica Hillary Clinton. Il 2016, d’altronde, era destinato a diventare l’anno delle Fake News sul più importante social network del pianeta. La Brexit era stata solo un assaggio.

Cinque anni dopo, gli scandali si sono moltiplicati. La reputazione di Facebook non sarà mai più la stessa. Instagram, di proprietà di Facebook, non fa bene alle ragazzine. Uno dei report interni pubblicati dal WSJ, afferma che quando il 32% delle adolescenti che utilizzano IG si sente a disagio con il proprio corpo, Instagram le fa sentire peggio. E Facebook era a conoscenza di questi dati, ma non ha fatto nulla.

E ancora: Facebook afferma da anni di aver reso la battaglia contro i commenti che incitano all’odio una sua priorità. Ma un conto è la moderazione messa in campo per i commenti in inglese, o in altre lingue occidentali. Tutt’altra storia è l’intervento dei ‘censori’ di Menlo Park in paesi dove ad esempio si parlano dialetti particolari, spesso molto diversi rispetto alla lingua madre. È il caso di metà dei paesi arabi. Arabia Saudita, Libia, Yemen, ad esempio. In queste aree, secondo quanto emerso da uno studio interno pubblicato quest’anno dal Financial Times, gli addetti alla moderazione dei commenti degli utenti sono praticamente inattivi. Secondo un documento, nel 2020 la società ha stanziato l′87% del suo budget per lo sviluppo dei suoi algoritmi di rilevamento della disinformazione negli Stati Uniti, contro il 13% nel resto del mondo. Anche in questo caso, data la provenienza del leak, Zuckerberg sapeva, ma non ha fatto nulla.

“Arriveranno altri titoli brutti per noi”. Nick Clegg, il vicepresidente di Facebook responsabile alla comunicazione, ne è sicuro. Anche perché, a partire da oggi, lunedì 25 ottobre, i contenuti dei Facebook Papers saranno pubblicati a cadenza quasi quotidiana sulle testate del consorzio coordinato da Associated Press. Ad iniziare con la pubblicazione dei primi leaks era stato il WSJ, che li aveva ricevuti in esclusiva. Dopo aver pubblicato le prime puntate dei Facebook Files sulle proprie pagine, lo storico quotidiano finanziario di New York ha passato i faldoni ai concorrenti. I documenti erano troppo vasti da analizzare da soli. E così il 10 ottobre si è costituito il consorzio. Le 17 testate hanno deciso di concedersi 15 giorni – scaduti oggi – per studiarsi bene le carte. E iniziare a pubblicare all’unisono a partire dal 25 ottobre, di modo da aumentare, tutte insieme, il loro impatto mediatico.

Certo, negli ultimi giorni, in realtà, il tradizionale spirito competitivo tra reporter d’inchiesta ha avuto la meglio sull’embargo. Varie indiscrezioni e leaks sono stati comunque pubblicati. Ma, alla fine, la questione è sempre la stessa. Anzi, l’ondata di rivelazioni di Frances Haugen, in realtà, non ci ha detto nulla di veramente nuovo. Per quanto Zuckerberg lo abbia negato pubblicamente in più occasioni, Facebook si trova perennemente davanti al solito dilemma. Una scelta esistenziale che lo accompagna fin dalla nascita. Che è anche lo stesso problema che devono affrontare tutti i Big Tech. Vengono prima le persone o i profitti? Il 2021, e i Facebook Papers, hanno chiarito, definitivamente, quale sia la risposta preferita da Zuckerberg. Ma già la sapevamo.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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