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In precario equilibrio su Draghi (a palazzo Chigi)

(Photo: Mondadori Portfolio via Mondadori Portfolio via Getty Im)
(Photo: Mondadori Portfolio via Mondadori Portfolio via Getty Im)

Si scrive “stupore”, si legge irritazione, si diffonde come sconcerto. La reazione trapelata dal Quirinale al disegno di legge (firmato da tre importanti senatori Dem: Zanda, Bressa e Parrini) che prevede la non rieleggibilità del capo dello Stato e l’abolizione del semestre bianco, scuote il Pd. Che si ritrova brutalmente e definitivamente privo della suggestione – da molti neanche troppo segretamente coltivata – di un mantenimento dell’assetto attuale al Colle e a Palazzo Chigi fino al 2023. Perché, salvo pochi sostenitori del rientro in campo dell’opzione estrema (quando ogni altra è fallita), l’episodio è considerato una “pietra tombale” sulle tirate di giacchetta a Mattarella. Con una novità rispetto al passato, per niente positiva per il centrosinistra: per la prima volta i numeri non gli consentono di dare le carte. Come ha sottolineato Salvini: “Spero in un presidente unitario, equilibrato e di garanzia, ma stavolta senza tessera Pd”. Mentre il coordinatore azzurro Tajani si è spinto oltre: “Non vedo perché non un presidente del centrodestra unito”. Berlusconi sarebbe “ottimo”, mentre con Draghi “si va a votare”.

Per i Dem è il giorno dei silenzi e degli imbarazzi. I firmatari della proposta di legge si difendono dai sospetti. “Interpretazioni fantasiose, mai pensato di condizionarlo, lo spirito è chiaro – argomenta Zanda – Intempestivo? Per forza va presentato alla fine del settennato o potrebbe suonare come una sfiducia verso il nuovo presidente”. Anche Bressa parla di “polemiche pretestuose” e si augura che il cammino del ddl vada avanti. Eppure, l’ex vicepresidente della Camera ed ultimo segretario del Ppi Pierluigi Castagnetti – amico di Mattarella e solitamente parco di giudizi politici – twitta: “Non si modifica la Costituzione per risolvere un problema politico. Ineccepibile la reazione”. In sostanza esplicitando il problema: a prescindere dalle buone intenzioni, eliminare giuridicamente la possibilità del bis, renderebbe un tempo supplementare di Mattarella fuori dalla strada dell’eccezionalità e dritta in quella di una sorta di ”abusivismo delle regole”. Scenario hard per un presidente refrattario a torsioni istituzionali, che ritiene di avere già dato il suo contributo a tendere la corda con la chiamata di Draghi a febbraio.

Se ne parlerà davvero – è il mantra – dopo Natale. Il 3 o il 4 gennaio – un mese preciso dalla scadenza del mandato di Mattarella – verrà convocato il Parlamento in seduta comune per avviare le procedure dell’elezione, dando un paio di settimane alle Regioni per eleggere i loro delegati. Date più probabili per il voto: tra il 16 e il 18 gennaio. Quando comincerà quella che la politica già chiama “la guerra del 16-18”. Fico ha lanciato un appello affinché le forze politiche scelgano con “unità di intenti”. Al momento sembra prevalere la “varante diluvio”: se Draghi traslocasse, il governo non terrebbe. Come ha mostrato l’ultimo dissidio sul contributo di solidarietà versus il caro-bollette. Di talché la più forte sostenitrice dello scenario è Giorgia Meloni, in vista del voto anticipato. Che però non vogliono altri: le correnti non lettiane del Pd, Forza Italia, i renziani, per tacere del gruppo Misto e dei peones che non vedrebbero mai più l’interno del Parlamento. “Non possiamo dare l’impressione che per l’Italia il 2022 anziché l’anno del rilancio diventi quello delle elezioni...”, ragiona un big centrista che tifa per lo status quo.

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Da quelle parti, il cantiere della federazione è avviato – tra Toti, Quagliariello, Mastella, Renzi, l’oscillante Calenda – e già la prossima settimana potrebbe essere battezzato dal primo vertice. Intanto, Italia viva perde un pezzo: il senatore Grimani (in bilico da un pezzo) passa al Misto professandosi di fede progressista e lontana dalla destra, e negando che c’entrino manovre pre-quirinalizie. E’ ancora presto per sentire l’odore del sangue. Ma due dottrine si scaldano a bordo campo: quella giorgettiana, del semipresidenzialismo de facto incarnato da SuperMario, e quella sedicente dello “spirito mattarelliano”, che vorrebbe un presidente politico a tutto tondo per evitare un settennato che “metta sotto tutela le istituzioni”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.