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Pubblicità, perché i messaggi tradizionali funzionano

Alcuni codici della comunicazione pubblicitaria sono poco creativi ma convincenti: conta anche la suggestione

Advertising (Fotolia)

La famiglia a colazione per vendere i biscotti, esaltando la valenza microsociale del momento della condivisione del pasto; ancora la famiglia, o tavolata di amici, per la pasta, meglio se il quadretto è ambientato al Sud; donne e uomini, in genere di bell’aspetto per vendere cosmesi.

La pubblicità è un linguaggio complesso, eppure i codici a cui le aziende si affidano per parlare al pubblico non solo spesso sono tradizionali, ma nemmeno indagati nella totalità del loro potenziale evocativo. Ma perché succede? Perché è più semplice usare una famiglia felice intorno al tavolo per vendere i biscotti?

L’assunto di partenza è che difficilmente la pubblicità, che pure definisce sistemi di valori e configura modelli di comportamento, inventa qualcosa ma di fatto è lei che prende dalla cultura di massa quegli elementi utili a creare e amplificare i consumi. Come dichiarato dalla famosa pubblicitaria Anna Maria Testa, la pubblicità “non precorre i tempi, non è nella sua natura.

La pubblicità è forma contemporanea del pensiero persuasivo, che è nato con i retori cinquecento anni prima di Cristo. Per persuadere, bisogna far leva su qualcosa che la persona ha già dentro: un’idea, un’informazione, una convinzione. Il discorso persuasivo parte da tutto questo e sviluppa un’argomentazione finalizzata; non inventa niente in termini di contenuto, mentre può essere creativo in termini di sviluppo dell’argomentazione”.

Un tema, quello dello sviluppo in termini di argomentazione, che a partire dalla fine degli anni ’80 si è imposto, forzando la mano sui fattori emozionali che colpiscono l’immaginario dello spettatore.

Come spiegano molti studi sul tema, compresi quelli accademici, la persuasione sulla base delle emozioni può avvenire per modalità implicite, esplicite, associative, ma tende comunque ad abbassare le difese, facilitando l’assorbimento del messaggio, rispetto all’argomentazione logica. Ecco perché la famiglia serve per vendere i biscotti o la pasta: la pubblicità che parla degli affetti privati delle persone rappresentate  fa sì che lo spettatore si identifichi, e riconosca un’esperienza emozionale e al tempo stesso mondiale, universale, che sperimenta ogni giorno. In altri casi l’adesione a un prodotto è basata sull’idea che determinati valori contano, il consumatore non è disposto a negoziarli e pretende“prove concrete”.

Proprio come avviene nella pubblicità delle gomme per l’alito o del dentifricio, dove il risultato del prodotto deve essere salutare, preventivo e anche performante. Quindi, non ci sono grandi innovazioni di contenuto ma resta forte l’idea  che le conseguenze indesiderabili e i rischi siano un buon viatico per veicolare il messaggio pubblicitario.

Al timore per una figuraccia in pubblico o per una disapprovazione sociale l’utente sostituisce il messaggio vincente del prodotto che, nello spot, stermina i batteri o ti ridona freschezza dopo 13 ore in ufficio, anche oltre l’argomentazione logica. I meccanismi che agiscono sono diversi ma basilare resta il meccanismo: “se le emozioni positive sono associate ad X, allora X è vero”.

Un caso eclatante è quello dei prodotti cosmetici femminili, non solo in tv ma anche sui giornali dove spesso alla descrizione dei fantastici trattamenti polivalenti si associa anche l’immagine di una donna ritoccata al photoshop e che magari ha comunque 38/40 anni e non 55 come l’antiage che vende. Bene, malgrado una comunicazione così falsa e sbilanciata, la consumatrice ci crede lo stesso, si “inganna” sui risultati finali e si lascia soggiogare dal modello di bellezza aspirazionale proposto.

Perché?  Per l’assunto di prima, su cui si basa gran parte della pubblicità o della comunicazione politica. Se l’idea di sembrare a 58 anni come una trentenne photoshoppata piace alle donne, allora non è strano che accettino la comunicazione di quei prodotti  che vendono come vero l’effetto a cui dicono di mirare perché sanno bene che stimola le associazioni positive di chi guarda.