Annuncio pubblicitario
Italia markets closed
  • FTSE MIB

    34.750,35
    -9,34 (-0,03%)
     
  • Dow Jones

    39.807,40
    +47,29 (+0,12%)
     
  • Nasdaq

    16.379,46
    -20,06 (-0,12%)
     
  • Nikkei 225

    40.369,44
    +201,37 (+0,50%)
     
  • Petrolio

    83,11
    -0,06 (-0,07%)
     
  • Bitcoin EUR

    65.296,36
    -396,88 (-0,60%)
     
  • CMC Crypto 200

    885,54
    0,00 (0,00%)
     
  • Oro

    2.254,80
    +16,40 (+0,73%)
     
  • EUR/USD

    1,0800
    +0,0007 (+0,06%)
     
  • S&P 500

    5.254,35
    +5,86 (+0,11%)
     
  • HANG SENG

    16.541,42
    +148,58 (+0,91%)
     
  • Euro Stoxx 50

    5.083,42
    +1,68 (+0,03%)
     
  • EUR/GBP

    0,8541
    -0,0006 (-0,07%)
     
  • EUR/CHF

    0,9730
    +0,0003 (+0,04%)
     
  • EUR/CAD

    1,4622
    +0,0016 (+0,11%)
     

Rai, il canone non risolve la crisi

Chi non aveva ancora versato alla tv di Stato i 112 euro del canone Rai, “con una piccola sovrattassa” poteva farlo fino al 29 febbraio. Questo campeggiava sullo schermo televisivo in tutti i programmi Rai, a tutte le ore. E sì, perché al canone dalle parti di viale Mazzini ci tengono eccome. E come ogni anno si apre la polemica. La solita. C’è chi alla fine ci ha fatto l’abitudine e ritiene il canone Rai una tassa giusta, una delle tante in questo periodo, e chi proprio non ne vuole sapere di pagare l’odiata gabella, anche a costo di vedersi oscurate le tre reti nazionali.

Cerchiamo di capire meglio, però, come l’azienda di Stato gestisce i nostri soldi, quelli del canone appunto. Spulciando sul sito della Rai, l’ultimo bilancio aziendale disponibile è quello del 2010. Bene, due anni fa, il canone dell’abbonamento valeva 1,68 miliardi di euro. Se poi si guarda quanto incassa la Rai con la pubblicità, cioè 1,03 miliardi, è facile capire come l’abbonamento costituisca, rispetto a tutti i ricavi, che ammontano a 3,01 miliardi, ben il 56 per cento. Un dato importante che supera la metà del totale delle entrate. Se il canone fosse abolito, in favore di una libera concorrenza tra televisioni private, la Rai non potrebbe più contare su circa metà degli utili. Ma essendo una tv di Stato, la tassa sul possesso di un televisore serve per pagare quei programmi con poco “appeal”, quelli che, per intenderci, stanno nel palinsesto ma interessano poco agli sponsor. Cosa che in realtà non accade sempre, anche perché un servizio pubblico ben fatto non solo fa il suo lavoro, ma è anche redditizio dal punto di vista pubblicitario.

Le ultime baruffe mediatiche sono state quelle del Festival di Sanremo. E c’è da dire che per questa edizione, di danari statali ne sono stai spesi parecchi: 18 milioni di euro per cinque serate, Celentano compreso. Mica male. Al conduttore Gianni Morandi, per esempio, sono stati corrisposti 800mila euro, più 500mila per le televendite. Anche Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez si possono ritenere soddisfatte, con 120mila euro in due. Soltanto 30mila euro per la semisconosciuta showgirl della Repubblica Ceca, Ivana Mrazova, stando alle cifre riportate, come ogni anno, da Vanity Fair. Gli autori del Festival, tra i quali figura anche Federico Moccia, hanno percepito 340mila euro, più le spese, grosso modo lo stesso dell’anno scorso. E ricordate il problema al sistema del televoto durante la prima serata? Sembra che quell’inconveniente sia costato alla Rai 650mila euro di mancati introiti pubblicitari per gli spot che non sono andati in onda nell’ultimo spazio previsto.

Insomma la crisi della Rai è più profonda di quanto sembri. Il recente taglio di circa 250milioni al bilancio, spalmato dal 2007 al 2011, ha sottratto risorse anche agli investimenti destinati ai contenuti. I dati dell’ultimo bilancio non sono ancora disponibili sul sito dell’azienda, ma la tv del nostro Paese ha qualche difficoltà proprio nel finanziare i contenuti televisivi che, oggi più che mai, devono essere attraenti, convenienti e accessibili in ogni momento, per reggere la sfida con Mediaset e Sky. Una sfida che si gioca anche nell’affollato campo del digitale terreste. Alcuni dati rendono meglio l’idea. Se consideriamo le risorse che affluiscono direttamente al sistema televisivo nazionale, ossia canone, pubblicità, abbonamenti e servizi a richiesta pagati dall’utente finale, nel 2003, anno di nascita di Sky Italia, c’era ancora un duopolio, con Rai e Mediaset che si spartivano equamente l’80 per cento della torta complessiva, lasciando a Sky le briciole. Due anni dopo la situazione cambia, l’ultima arrivata Sky registra tassi di crescita 5 volte superiori a Mediaset e Rai, puntando molto sugli abbonamenti ovviamente. E alla fine del 2005 Mediaset, per rendersi più competitiva, opera una scelta strategica: entra nella tv a pagamento tramite il digitale terrestre. E i dati degli ultimi due anni testimoniano che il mercato dei ricavi tv è quasi diviso al 33 per cento tra le tre aziende con Mediaset che si aggiudica il 33 per cento esatto, Sky il 34 per cento e la Rai rimane ferma al 28 per cento.

Canone o non canone, la questione riguarda i contenuti. La competizione per un editore televisivo - a maggior ragione se di servizio pubblico - deve puntare proprio su questo. Dal 2009 al 2010, si legge ancora nel bilancio pubblicato sul sito dell’azienda, gli investimenti in programmi sono diminuiti di oltre 33 milioni di euro. Non è certo un bel segnale per cercare di superare la crisi della televisione pubblica. Intanto i soldi del canone, tanto per ricordarlo, rimangono quelli di tutti gli italiani. E non andrebbero sprecati.