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Il reddito minimo garantito: perché l'Italia è in ritardo

Era stata proprio il ministro Fornero a ipotizzare misure che portassero all'introduzione del reddito minimo garantito nella Riforma del Lavoro approvata dal Parlamento, suscitando il favore di PD e SEL e l'opposizione dei sindacati e del PDL. Poi nella riforma sono rimaste solo alcune misure a sostegno dei lavoratori a progetto ed è oggi Nichi Vendola a riproporre il tema, con una raccolta firme per una legge di iniziativa popolare. Ma cos'è il reddito (o salario) minimo garantito?
Nel 1992 la Commissione europea invitò gli stati membri a predisporre misure sulla "Garanzia minima di risorse" per la lotta alla povertà e con l'obiettivo dell'inclusione sociale. Sostanzialmente si tratta, di un ammortizzatore sociale per categorie disagiate, come disoccupati (soprattutto ultracinquantenni) e giovani in cerca di una prima occupazione, che si concretizza, appunto, in un salario fornito dallo stato, di entità variabile da paese a paese (dai 345 euro al mese della Germania ai 1.200 della Danimarca e che in Italia si è ipotizzato tra i 500 e i 1.000 euro) e in genere vincolato alla ricerca di una nuova occupazione o alla partecipazione a programmi formativi. Sono passati vent'anni e quattro raccomandazioni in tal senso da parte della Commissione Europea, che hanno portato tutti gli stati ad adottare misure di questo tipo. Tutti tranne Italia, Grecia e Ungheria.
Perché questo ritardo? I critici della misura sostengono che i problemi principali siano la spesa necessaria a sostenerla e la deresponsabilizzazione dei cittadini. Eppure molti studi economici e soprattutto l'esperienza dei paesi europei in cui questo strumento è in atto dimostrano che ha una sua validità e, regolata in modo corretto, favorisce il reinserimento dei soggetti disagiati nel circuito economico e sociale. E anche sul fronte della spesa, è stato calcolato dall'economista Andrea Fumagalli, e pubblicato sul numero uno della rivista I quaderni di San Precario, che per offrire a tutti i residenti italiani un livello di reddito pari alla soglia di povertà relativa (600 euro al mese) sarebbero necessari 25 miliardi di euro, ai quali andrebbero però detratte tutte le altre spese sociali attualmente sostenute dallo stato e che andrebbero a sparire, per arrivare a un investimento pubblico di circa 8 miliardi di euro. Non una cifra esorbitante quindi per una misura di questa portata. Uno dei motivi che sicuramente ha impedito l'introduzione del reddito minimo garantito in Italia è stato che tra i suoi più decisi oppositori ci siano proprio i sindacati (tutti i principali, CGIL, CISL e UIL, con alcune eccezioni di alcune parti di essi come la FLC-CGIL - Federazione lavoratori della conoscenza  e i metalmeccanici della Fiom, che si sono recentemente espressi a favore). Una posizione che potrebbe stupire, ma che secondo Fumagalli è da ricondurre al timore di perdere la propria posizione strategica di potere per l'accesso agli attuali ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione, i sussidi di disoccupazione e le indennità di mobilità. Tutti strumenti, questi citati, che, al contrario del reddito minimo garantito, necessitano di un'intermediazione politica come quella offerta dai sindacati stessi.