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Referendum, "La firma digitale scardina la ritrosia del parlamento sui temi divisivi"

Francesco Clementi, uno dei saggi della Commissione per le riforme costituzionali, a Cogne per il Forum italo-francese 'Dalle riforme la rinascita', organizzato dalla Fondation Grand Paradis, 12 ottobre 2013. ANSA / ENRICO MARCOZ  (Photo: Enrico Marco/ANSA)
Francesco Clementi, uno dei saggi della Commissione per le riforme costituzionali, a Cogne per il Forum italo-francese 'Dalle riforme la rinascita', organizzato dalla Fondation Grand Paradis, 12 ottobre 2013. ANSA / ENRICO MARCOZ (Photo: Enrico Marco/ANSA)

“Il referendum abrogativo è uno strumento previsto dalla Carta per migliorare il dialogo tra politica e cittadini, sta alla capacità del Parlamento rimanere arbitro di questo dialogo”. Francesco Clementi, costituzionalista, docente di Diritto Pubblico Comparato all’università di Perugia, analizza le conseguenze dell’ondata di firme referendarie sul piano del diritto e della politica: “Non alzerei la soglia minima delle 500mila firme, perché serve una riforma costituzionale e i tempi sono stretti, ma agirei subito sulla legge ordinaria istitutiva del referendum. E sì al vaglio anticipato della Consulta. La firma digitale è stata decisiva”.

Il successo delle campagne referendarie di quest’estate – 500mila firme per la legalizzazione della cannabis e quasi un milione per l’eutanasia raccolte in tempi rapidissimi – ha scaldato gli animi. Lei ci vede un rischio di delegittimazione del Parlamento o piuttosto un tentativo di riempire il vuoto dell’inerzia legislativa?

Il primo elemento da mettere in luce è che ci troviamo di fronte a uno strumento, il referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione, e che dunque i cittadini hanno pieno diritto di esercitare. Va certo adeguato alla funzione, ma non possiamo non vedere la funzione stessa. Se delegittima il Parlamento? Dipende dal Parlamento e dai politici che lo abitano: sono loro gli arbitri del dialogo tra la politica e il Paese, mentre il referendum è uno strumento per migliorare questo dialogo.

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Tante opinioni diverse, ma per ora l’unica proposta in campo è quella dei Dem Ceccanti e Parrini per alzare la soglia delle firme a 800mila, abbassare il quorum e anticipare il vaglio della Consulta. E’ un modo per depotenziare il referendum o per modernizzarlo?

Per modificare la soglia di ingresso, bisogna modificare l’articolo 75 della Carta. E’ una riforma costituzionale fattibile ma oggi i tempi sono inevitabilmente stretti. A mio avviso, però, non si può lasciare questa situazione senza risposta: lascerei il numero delle firme a 500mila e agirei intanto subito sulla legge ordinaria 352/70, istitutiva del referendum. E trovo condivisibile la seconda parte di quella proposta che anticipa il vaglio della Consulta subito dopo la raccolta delle prime 100mila firme.

Non c’è il pericolo che appaia come una “rappresaglia” della politica sulla democrazia diretta?

Al contrario, così si evita che una valanga di firme, pure validamente raccolte, finisca nel nulla perché il quesito alla fine non è ammissibile. Alimentando però il rischio di potenziali disillusioni tra i cittadini e lo strumentale populismo di qualcuno, sempre tentato di andare contro le istituzioni, e qui contro la Corte Costituzionale che fa semplicemente quanto la Carta le attribuisce. Ma non solo: mentre con le firme normali, il preliminare controllo di legalità affidato alla Cassazione richiede dei tempi tecnici, con la novità delle firme digitali si certifica in pochissimo tempo perché i dati digitali sono per forza corretti. Quindi, se non si anticipa il controllo di ammissibilità, ci saranno tempi morti e risposte tardive.

Quanto ha inciso sull’ondata referendaria di quest’estate il via libera alla firma digitale?

Moltissimo, in modo decisivo. E’ una riforma che scardina da dentro una certa ritrosia da parte di un Parlamento in transizione ad affrontare temi divisivi.

Parlamento in transizione è una formula garbata per l’ultima legislatura prima del taglio di deputati e senatori?

C’è chi lo ha chiamato l’”ultimo Parlamento”, ma è una formula che non condivido. I fatti però vanno analizzati sempre alla luce del contesto in cui accadono. Ed è chiaro che bisogna attrezzare l’ordinamento ai rilevanti cambiamenti che ci attendono dal 2023.

Baldelli osserva che era meglio riformare le regole referendarie prima di dare luce verde alla firma digitale. Ceccanti controbatte che non si poteva dare una risposta burocratica alle esigenze della pandemia. Chi ha ragione?

Guardiamo al futuro. Restano 15 mesi per un pacchetto di riforme volendo anche costituzionali minime e mirate per entrare nel nuovo sistema parlamentare con strutture adeguate. Si modifichino anzitutto almeno i regolamenti parlamentari e, come dicevo, si intervenga sulla legge 352/70. Poi, a mio avviso, è imprescindibile trovare un accordo sulla legge elettorale.

Pensa davvero che la maggioranza eterogenea che sostiene il governo Draghi, tra misure anti-covid ed elezione del nuovo capo dello Stato, riuscirà a varare una riforma costituzionale?

Proprio il voto per il successore del presidente Mattarella rappresenta una fantastica opportunità. E’ come una matrioska russa: dentro un’elezione che non può che avvenire a larga maggioranza ci sarà per forza l’idea di quale formato avranno le prossime maggioranze e il sistema politico dopo il 2023. Se ci saranno le coalizioni o la marmellata del liberi tutti della Prima Repubblica, se tornerà o meno un bipolarismo, se il cittadino avrà potere decisionale nelle scelte o dovrà subirle. Questi sono temi che, volenti o nolenti, i partiti dovranno affrontare nei prossimi mesi.

E’ già partita la corsa al referendum sul green pass. Quante chances gli dà?

Bisognerà leggere il quesito per capire se ci sono i presupposti. Ma ho molti dubbi. In ogni caso, speriamo che nonostante i tempi accorciati della raccolta di firme digitali quelli per l’uscita dalla pandemia siano ancora più brevi, e che il green pass smetta ex se di essere giustamente necessario.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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