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Referendum sulle trivelle: tutte le conseguenze economiche

Le (Taiwan OTC: 8490.TWO - notizie) conseguenze politiche e quelle economiche, i rischi ambientali e i vantaggi per il turismo: 48 ore e poi si vota per il referendum sulle trivelle. Ma di cosa si tratta?

Il Referendum

Originariamente i quesiti erano 6 con gli altri 5 che sono già stati assorbiti dalla Legge di Stabilità la quale ha restituito proprio alle Regioni, e per loro ai vari enti locali, maggiori poteri decisionali. Domenica prossima si vota per il referendum con il quale il popolo italiano è chiamato a decidere se le concessioni in mano alle compagnie petrolifere per la presenza delle trivelle entro 12 miglia dalla costa (20Km) potranno durare fino all’esaurimento del giacimento, cosa che avviene adesso, oppure con la vittoria del sì, alla prima scadenza utile dovranno chiudere. Scadenze che arriveranno nel primo caso tra due anni e, negli ultimi, intorno al 2034.

Il referendum riveste un’importanza particolare non solo per una nazione come l’Italia che vive di turismo ma anche che si trova in un mare chiuso come il Mediterraneo nel quale, ogni possibile perdita o un qualsiasi incidente sulle piattaforme, rischierebbe di creare problemi anche al resto della nazione. Le Regioni maggiormente interessate dalla presenza delle trivelle sono quelle dell’alto Adriatico dove sitrova la maggior parte degli impianti entro le 12 miglia.

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Le perdite di posti di lavoro

Chi è a favore del no ricorda le possibili perdite occupazionali, dati che secondo Assomineraria andrebbero dai 10.000 ai 30.000 se si volesse considerare l’indotto, un dato che viene estremamente ridimensionato dal fatto che, ammesso e non concesso che i numeri siano effettivamente tali, dovrebbero essere spalmati su un arco temporale di oltre 20 anni, senza contare il fatto che, proprio questo periodo piuttosto ampio, permetterebbe al governo di riorganizzare e soprattutto incentivare il settore delle rinnovabili facendolo diventare un potenziale trampolino di lancio per l’economia italiana. Cosa che a quanto pare il governo non ha mai avuto intenzione di fare visto che nel recente passato ha scelto di tagliare gli stessi incentivi che avrebbero permesso ai piccoli e piccolissimi impianti di sfruttare i pannelli solari sui tetti degli edifici con notevoli abbattimenti di costi e vantaggi sui guadagni. Non solo, ma non si capisce una preoccupazione del genere se si guardano ai 7.000 posti di lavoro persi tra il 2012 e il 2014 a causa di ritardi burocratici per le pratiche delle varie autorizzazioni oltre a quelli delle aste per gli incentivi dei nuovi impianti eolici. Posti sui quali non si è spesa nessuna parola e tanto meno si sono presi provvedimenti. Evidentemente non erano così importanti.

L'importanza degli energetici

Non solo. Un esempio arrivi da quello che sta facendo proprio in questi mesi l’Arabia Saudita, per decenni primo produttore mondiale di petrolio, e che ha deciso di virare la sua economia sfruttando ancora di più l’energia solare e quella eolica. Per quanto riguarda invece l’altro problema che si pongono coloro che sostengono il fronte del no e cioè quello dei mancati investimenti in Italia, cosa che si verificherebbe in caso di vittoria del sì, va ricordato che con la crisi delle quotazioni del petrolio, investire nel settore non è conveniente ormai da tempo e inoltre le società, in primis quelle più grandi, hanno già ampiamente ridimensionato la voce riguardante i nuovi progetti in particolare quelli, più costosi, delle esplorazioni e delle trivellazioni.

E ancora: il sì taglierebbe importanti entrate fiscali?

Secondo i favorevoli al referendum i numeri che verrebbero meno sul fronte delle entrate fiscali sarebbero minimi: le cifre che parlano di royalties al 2015 per 352 milioni di euro e un gettito da imposte di 580 milioni di euro verrebbero ridimensionati dal momento che l’Italia applica le tariffe più basse al mondo, il 7% per le trivelle a mare, 10% per i pozzi su terra, il tutto pari a poco più di 300 milioni l’anno. Ma a prescindere dai numeri è ancora più importante l’uso che dei proventi viene fatto (per quelli provenienti dal petrolio così come anche per tutti gli altri). Ebbene anche qui si guardi al passato e cioè a quando, ben lontana la crisi delle quotazioni, gli enti locali decisero di destinare quei capitali non a progetti di sviluppo energetico o sociale ma solo a spese correnti. Capitali che, tra l’altro, arrivavano da attività che contribuivano solo per l’1% ai consumi nazionali (nello specifico fra il 3 e il 4% dei consumi di gas, per lo più metano e l’1% di quelli di petrolio) quindi verrebbe abbattuta l’altra teoria dei contrari al referendum e cioè quella che vorrebbe le attività di estrazione una fonte di approvvigionamento energetico importante, tolta la quale la nazione perderebbe competitività. Un impatto che è risibile anche guardando le cifre della stessa Assomineraria che parla di una quantità di petrolio che garantirebbe autonomia nazionale sul petrolio per 6-7 settimane e sul gas per sei mesi, il tutto all'interno di una bolletta che a livello nazionale è arrivata nel 2015 a 34 miliardi di cui solo 3,4 provenienti da produzione nazionale.

Chi ha paura del voto?

A gestire la maggior parte delle trivelle entro le 12 miglia sono Eni (Euronext: ENI.NX - notizie) (76 piattaforme) ed Edison (15) con quest’ultima che, entro le 12 miglia, si ferma ad appena seimila barili di petrolio al giorno mentre la prima, su una produzione mondiale di 1,8 milioni di barili al giorno vede l’Italia al 10% di questa cifra e con i giacimenti più importanti sulla Pianura Padana e in Basilicata (75 mila barili). Facile quindi capire come l’impatto del referendum sia assolutamente minimo.

L'incapacità di fondo

Quello che questo referendum mette in evidenza, a prescindere da tutto, è la mancanza assoluta di una visione organica da parte del governo attuale così come quelli passati, di una politica di sfruttamento delle risorse nazionali da sempre miope non solo in ambito energetico ma in tutto il resto del sistema produttivo italiano: da tempo le grandi società godono di agevolazioni che permettono loro di vedersi alleggerita, in maniera più o meno corretta, la pressione fiscale anche con la creazione di società offshore ed altri escamotage al di fuori della portata degli "altri" e cioè le piccole e medie imprese, vera e propria spina dorsale dell’economia, così come i piccoli imprenditori e i liberi professionisti, spesso oggetto di un carico fiscale da record oltre che di una serie di norme al limite della schizofrenia anche per gli stessi addetti ai lavori. Un approccio che rispecchia, più in generale, quello per le politiche energetiche: mentre tutto il mondo guarda alle rinnovabili, compresi i maggiori produttori di petrolio, l’Italia si trova in una situazione da Giano bifronte. Da una parte il Gestore dei servizi energetici (Gse) conferma che nel 2015 le rinnovabili hanno contribuito con il 17,3% di energia al consumo nazionale ma allo stesso tempo, se si tratta di un risultato lusinghiero che supera la quota minima prevista dall’Ue, pone la Penisola in una situazione di inferiorità rispetto ad altre realtà che come la Norvegia (a sua volta produttrice di petrolio) sono arrivate al 50%.

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