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Riforma Fornero: perché non si può tornare indietro

Vari partiti promettono di cancellare la riforma Fornero. Ma l’aggancio automatico dell’età della pensione alle aspettative di vita è una politica ragionevole se non si vuole mettere in discussione la stabilità finanziaria del sistema pensionistico.

Promesse di controriforma

La “controriforma” delle pensioni è uno dei cavalli di battaglia del programma elettorale di molte forze politiche. E sembrano andare per la maggiore le modifiche studiate per bloccare il sentiero di crescita dell’età di pensionamento. L’aggancio dell’età pensionabile alla dinamica delle aspettative di vita prefigura infatti un aumento nell’età di pensionamento di 3-4 anni nel corso dei prossimi decenni. Contro questo assetto si sono dapprima levate voci che hanno suggerito di rendere selettivo l’aumento, escludendo alcune categorie di lavoratori più svantaggiati. Più di recente sono arrivate le proposte di fissare a 41 anni per tutti il requisito contributivo per accedere al pensionamento e quelle di reintrodurre il meno rigido sistema delle quote (somma di età e anzianità contributiva). Secondo l’Inps, abbandonare l’aggancio automatico dell’età di pensionamento all’andamento delle aspettative di vita costerebbe 140 miliardi di euro, da oggi al 2035. L’Italia se lo può permettere?

Per avere un’idea chiara del ruolo dell’età di pensionamento è utile ricordare che nei sistemi a ripartizione, come il nostro, la spesa corrente per pensioni è finanziata dai contributi sociali pagati dai lavoratori nel medesimo anno. La stabilità finanziaria del sistema dipende dunque anche dal rapporto tra il numero di pensionati e quello degli occupati. Se il rapporto aumenta, a parità di importo medio di pensioni e salari, anche la spesa complessiva per pensioni rispetto al prodotto dell’economia è destinata a crescere.

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La simulazione

La figura 1 mostra cosa succede al rapporto tra il numero di pensionati e quello degli occupati in una popolazione composta da 60 generazioni della stessa consistenza numerica, nell’ipotesi che tutti gli individui lavorino quaranta anni, vadano in pensione a 65 e vi restino per i successivi venti.

Al tempo t=0 interviene uno shock che aumenta l’aspettativa di vita delle generazioni che raggiungono l’età di pensionamento per un ammontare di 3 mesi ogni anno. Questo significa che, in 12 anni, l’aspettativa di vita cresce di 3 anni.

Nella figura 1 sono rappresentate tre differenti politiche. Nel (Londra: 0E4Q.L - notizie) primo caso, l’età di pensionamento rimane costante per tutto il periodo successivo allo shock; nel secondo cresce in linea con l’aumento dell’aspettativa di vita; nel terzo aumenta in modo che, per ogni generazione, rimanga costante il rapporto tra il numero di anni di lavoro e quello di anni di pensionamento.

Nella figura 2 sono riportati i valori dell’età di pensionamento delle tre situazioni.

Figura 1 – Rapporto tra numero di pensionati e numero di occupati in presenza di differenti politiche di indicizzazione dell’età di pensionamento

Figura 2 – Età di pensionamento in presenza di differenti politiche di indicizzazione

Il risultato del primo caso è intuitivo. A partire dal primo anno successivo allo shock, i pensionati vivono più a lungo e quindi il loro numero complessivo cresce. Poiché l’età di pensionamento non cambia, il numero di occupati resta costante e il rapporto tra i pensionati e questi ultimi aumenta.

Il confronto tra la seconda e la terza simulazione aiuta a valutare gli effetti di una politica di indicizzazione dell’età di pensionamento. Aumentare l’età di pensionamento nella stessa misura dell’aumento nell’aspettativa di vita (come fa la riforma Fornero) provoca una riduzione nel rapporto tra pensionati e occupati. Misure meno draconiane sono sufficienti a mantenerlo costante: nel nostro caso, basta l’aumento di un anno nell’età di pensionamento.

Il legislatore è stato dunque eccessivamente severo nel 2011?

Non necessariamente. A differenza del nostro esempio, la popolazione italiana non ha generazioni di dimensioni uguali. Anzi, la numerosità delle coorti in uscita dal mercato del lavoro nei prossimi decenni è molto maggiore di quella delle coorti in entrata. È la conseguenza del contemporaneo passaggio, atteso nei prossimi due decenni, delle generazioni del baby boom dalla fase attiva a quella di pensionamento e dell’entrata nel mercato del lavoro delle generazioni, molto meno numerose, nate dopo il 1990.

Al tempo stesso non sembra che gli italiani, nella loro maggioranza, siano disposti ad accettare l’idea che lavoratori di altre nazionalità possano compensare lo scompenso demografico: l’utilizzo di forza lavoro straniera non è considerata una politica socialmente sostenibile, almeno nelle dimensioni richieste per pareggiare lo squilibrio demografico interno.

L’aggancio automatico alle aspettative di vita sembra dunque una politica ragionevole, se non si vuole mettere in discussione la stabilità finanziaria del sistema pensionistico.

Il sistema contiene invero al suo interno un ulteriore meccanismo di riequilibrio: la regola contributiva. Legare l’importo della pensione all’aspettativa di vita, infatti, contribuisce ad assicurare la stabilità finanziaria. Nel dibattito su cosa fare dell’età di pensionamento nei prossimi decenni (o nella prossima legislatura), nessuno sembra essersene ricordato.

Di Carlo Mazzaferro

Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online