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I riformisti rassegnati tifano Draghi al Colle perché non credono nell'Italia

(Photo: Anadolu Agency via Getty Images)
(Photo: Anadolu Agency via Getty Images)

Qualche giorno fa - con pochi e qualificati amici, manager di aziende e associazioni di imprese - la Fondazione Ottimisti&Razionali ha discusso lo stato di attuazione del Pnrr, il colossale piano che destina oltre 220 miliardi di euro alla ripresa dell’Italia da qui al 2026, di cui sono state gettate le basi nel 2021, con la definizione delle missioni da attuare e disegnando la complessa governance del piano. Tutte cose fatte finora - oggettivamente bene - dal governo Draghi.

Ora il piano deve essere “messo a terra”, come si dice in gergo. Una volta allocati, i soldi andranno spesi, altrimenti restano in Europa, se non si fanno le riforme necessarie ed esplicitamente richieste (giustizia, fisco, concorrenza, appalti, etc…) e non si realizzano le 528 (cinquecentoventotto) condizioni poste da Bruxelles: obiettivi e traguardi da far tremare le vene e i polsi.

Esempi concreti: se supereremo le lungaggini autorizzative e le resistenze burocratiche - a partire da quelle delle Sovrintendenze - che ritardano qualunque investimento si pensi di fare in Italia; se compiremo un salto di qualità progettuale negli Enti locali, che spesso non hanno personale e competenze necessarie, al punto da rigettare la responsabilità di dover spendere (e rendicontare) le risorse a disposizione; se daremo subito una forte spinta ai partenariati pubblico-privato previsti dal Piano; se riusciremo a integrare in maniera corretta i fondi del Pnrr e quelli provenienti da altre fonti. E così via. Ecco: se faremo queste cose, arriveranno i soldi e l’Italia cambierà volto nel giro dei prossimi anni; in caso contrario, il nostro destino di marginalità è già segnato. Quanto ai soldi, nisba.

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Basterebbero queste poche, banali considerazioni a dirci che la “messa a terra” del Pnrr - attualmente in capo a questo governo e a chi lo dirige - è la piattaforma ideale e pratica su cui dovrebbero convergere, senza nemmeno farsi sfiorare da un dubbio, i famosi, mitologici “riformisti” d’Italia. Quelli che - assisi nei cieli dei loro desideri - aspettano da decenni la buona novella della modernizzazione di un paese che per incanto diventi terra di conti virtuosi e di meritocrazia, di standard europei e di civiltà dei comportamenti, di mercati concorrenziali e di sobrietà della politica.

Invece - come in altri momenti della storia nazionale - anche in vista dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica sta prendendo forma la più classica delle maledizioni dei riformisti italiani. Se fate la conta di quelli che dichiarano, scrivono e tifano per Draghi al Quirinale, ce ne troverete dentro un bel po’. Sono persone solitamente ragionevoli - conto diversi amici tra loro - che si trovano a sostenere lo slogan infantile e goliardico “meglio sette anni al Quirinale che qualche mese a Palazzo Chigi”. E cioè l’idea bislacca che Mario Draghi possa garantire e gestire dal Quirinale l’attuazione delle riforme, l’execution di milestones e target, la definizione di bandi e progetti, la spesa e la rendicontazione corretta e tempestiva della gigantesca quantità di risorse in arrivo. Tutta roba che riguarda invece - solo e unicamente - la macchina dello Stato: le amministrazioni pubbliche centrali, regionali e comunali; le burocrazie dei ministeri, gli Enti di controllo. Insomma, quella cosa che - da che mondo è mondo - si chiama “governo”.

È impressionante come diverse persone dotate solitamente di senno possano ritrovarsi a pensare simili sciocchezze. Mostrando di non conoscere l’abc della Costituzione, le attribuzioni e i poteri istituzionali della Presidenza della Repubblica. Immaginando che, alla prima difficoltà, dal Quirinale basterà che Draghi alzi la cornetta: ”Sai Ursula, quest’anno non ce l’abbiamo fatta a spendere le risorse destinate... Ma non ti preoccupare, garantisco io…”. E che gli accigliati frugali e i falchi arcigni d’Europa prenderanno per buone le rassicuranti parole di un signore che si aggira tra gli stucchi del Colle più alto di Roma.
Ma come è possibile, mi chiedo, che abbia preso piede questo racconto fantasioso nel milieu trasognato dei riformisti nostrani? Obiettivamente non ci sono motivazioni razionali che tengano.

Ce n’è solo una: sottintesa, latente, recondita, eppure grande come una casa. In realtà i riformisti pensano che l’Italia sia irriformabile. Come in diverse circostanze finiscono per confessare, disprezzano il paese, le sue istituzioni, le sue classi dirigenti. E ritengono che con gli italiani in quanto tali ci sia poco da fare. Perché sono mediamente incivili, refrattari alle regole, incuranti del bene pubblico, e in linea di massima pensano, agiscono (e votano) male. Sono rassegnati e disperati, i miei amici riformisti. Vogliono mettere al riparo Mario Draghi, che apprezzano e stimano, solo per procedere all’ennesima imbalsamazione dell’italiano “diverso”. Quello che tutti ci invidiano, ma non è replicabile, non può diventare sistema. Così il loro elitismo troverà eterna conferma e potranno tornare in giro per salotti a dire “vedete che non c’è niente da fare”. Ammissione da pavidi, buona per passeggiatori da fogli di giornale che disdegnano la fatica della concretezza e si illuminano per i ragionamenti astratti, le scorciatoie politicistiche, i magheggi tattici. Sempre issando il loro vessillo preferito. Coniglio bianco in campo bianco.

Huffpost (Photo: Huffpost)
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Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.