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Rigopiano, la giustizia che manca a morti e vivi

(Photo: Anadolu Agency via Getty Images)
(Photo: Anadolu Agency via Getty Images)

D’improvviso è tornata sui giornali la straziante storia di Rigopiano, nome dell’hotel e della frazione (di Farindola, provincia di Pescara) dove cinque anni fa, il 18 gennaio del 2017, ventinove persone morirono sotto una slavina. Il ritorno non dipende soltanto dalla suggestione della ricorrenza, ma anche da un’altra data, 28 gennaio, appuntamento di un’ennesima tappa dell’udienza preliminare stabilita per decidere se rinviare a giudizio i trenta indagati. Dopo cinque anni siamo ancora lì, al vaglio delle indagini, e il giorno in cui si farà finalmente giustizia – cerco di uniformarmi al vocabolario corrente – non si avvicina, poiché le cronache informano di un probabilissimo ulteriore rinvio per consentire ai periti di fornire nuove consulenze. Sono cronache molto evocative, come è comprensibile che sia per l’enormità della tragedia, un’architettura di tecnicalità giuridiche e lacrime dei familiari delle vittime, e in cui il refrain impegna lo scandalo dell’inevaso dovere di giustizia in memoria delle vittime.

Niente da dire, ventinove morti e i familiari impongono a uno Stato civile di appurare, e in tempi ragionevoli, secondo Costituzione, se ci siano dei responsabili ed eventualmente quale pena debbano sopportare. Ci si dimentica però – non spesso, sempre – che a uno Stato civile quel dovere di giustizia è imposto anche nei confronti degli indagati. Dopo cinque anni, gli indagati hanno il diritto non minore di essere mandati a processo o no, di essere assolti o condannati, e cinque anni di limbo sono di per sé già una condanna, e ingiusta. Lo scrivo nella labile speranza di riequilibrare un poco il modo in cui viene posta la faccenda, e da allora, da quando nelle prime ricostruzioni giornalistiche entrarono le classiche carte della procura, nelle quali si leggeva delle telefonate choc – espressione non mia, continuo a uniformarmi – dei soccorritori in difetto di soccorso. Ne riporto un paio, a maggior indignazione collettiva. La prima. Paolo D’Incecco, dirigente della Regione Abruzzo deputato alle emergenze, sbotta con l’interlocutore che più in là progetta di andare a Rigopiano: «Lascia stare l’albergo, mi ha rotto il cazzo l’albergo». La seconda. Qualche ora più tardi, ancora D’Incecco. «Per Rigopiano se ne parla domattina?», gli chiedono. Sì, risponde, e nemmeno tanto presto perché «se dobbiamo liberare la spa almeno ci facciamo il bagno». E ridono.

RIGOPIANO, FARINDOLA, ITALY - 2017/03/18: Torchlight in Rigopiano of Farindola to remember, to two months after the tragedy, the 29 victims of the avalanche that swept on the Jan. 18 Rigopiano Hotel. (Photo by Matteo Nardone/Pacific Press/LightRocket via Getty Images) (Photo: Pacific Press via LightRocket via Getty Images)
RIGOPIANO, FARINDOLA, ITALY - 2017/03/18: Torchlight in Rigopiano of Farindola to remember, to two months after the tragedy, the 29 victims of the avalanche that swept on the Jan. 18 Rigopiano Hotel. (Photo by Matteo Nardone/Pacific Press/LightRocket via Getty Images) (Photo: Pacific Press via LightRocket via Getty Images)

Leggi quella roba lì e ti indigni. Come fai a non indignarti? Però quando leggi quella roba lì – lo dico soprattutto ai giovani giornalisti – deve suonare il campanellino. Perché la ricostruzione troppo perfetta del mostro, che davanti ai ventinove morti si è rotto il cazzo e vuole fare il bagno nella spa, può andare bene al massimo per i cartoni animati.

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Un anno dopo la slavina, con qualche fatica riuscii a recuperare il grosso delle carte d’indagine e mi presi qualche giorno per leggerle. Bè, era tutta un’altra storia. Quel giorno – 18 gennaio 2017 – sull’Abruzzo scende una nevicata come di simili non se ne vedono da decenni. Le previsioni del tempo danno codice arancione e lo avrebbero dato fino a sera, sebbene bastasse guardare dalla finestra per capire che era un codice rosso. L’intero Abruzzo dispone di tre turbine per liberare le strade, e ne servirebbe almeno il triplo. Perché non ci sono le turbine? L’impeto della domanda ha a che fare con l’indignazione. Perché solo tre? Facile, perché dall’ultima volta che tre si dimostrarono insufficienti sono trascorsi trent’anni, e le turbine costano e non si tengono ad arrugginire nei capannoni. Non basta. Il terremoto di Amatrice è di un anno e mezzo prima, agosto 2016, e ancora ci sono scosse formidabili e continue. Pochi minuti prima della slavina sotto cui verrà sepolto l’Hotel Rigopiano, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia dirama un comunicato: «Quattro sismi di magnitudo superiore a cinque nell’arco di quattro ore è un fenomeno mai visto». Alle 10.25 magnitudo 5.3; alle 11.14 magnitudo 5.4; alle 11.25 magnitudo 5.3; alle 14.33 magnitudo 5.1. Nelle tre ore successive si registrano altre scosse, più lievi ma continue. Alle 17.40 arriva il primo allarme: l’Hotel Rigopiano non c’è più.

Dunque, la tormenta di neve non si ferma, le scosse di terremoto provocano smottamenti e slavine. Detto così significa poco. Provo a dirvelo in altro modo: «Siamo sommersi dalla neve, non possiamo raggiungere le frazioni e i nostri animali», dice il sindaco di Ussita, già devastato dal terremoto; 110mila abruzzesi sono senza energia elettrica; esondano il Pescara e il Saline; strade e ferrovie sono interrotte; i comuni terremotati delle Marche lanciano un Sos collettivo: «Aiutateci»; a Pieve Torina crolla l’asilo provvisorio; due operai sono travolti da una slavina a Sassotetto; si raggiungono i comuni isolati con gli sci per portare il latte ai neonati; una donna incinta è prelevata dall’Esercito ad Amatrice e trasferita all’ospedale; a Villa Celiera è crollata una casa e non si sa nulla di chi c’è dentro, lì non ci si arriva neanche con gli elicotteri; a Roccafluvione si portano bombole d’ossigeno per gli anziani; Accumoli rasa al suolo chiede l’aiuto dei militari; si segnalano allevatori dispersi ad Arquata; il presidente della provincia di Teramo si dichiara disarmato: «Aiutateci»; il sindaco di Camerino crolla: «Siamo abbandonati a noi stessi»; collassa un supermercato a Penne, due dispersi sotto le lamiere; a Castiglione si estraggono due ragazzi in ipotermia dalle macerie; i paesi e i borghi isolati sono ben oltre il centinaio; slavine ovunque.

RIGOPIANO, FARINDOLA, ITALY - 2017/03/18: Torchlight in Rigopiano of Farindola to remember, to two months after the tragedy, the 29 victims of the avalanche that swept on the Jan. 18 Rigopiano Hotel. (Photo by Matteo Nardone/Pacific Press/LightRocket via Getty Images) (Photo: Pacific Press via LightRocket via Getty Images)
RIGOPIANO, FARINDOLA, ITALY - 2017/03/18: Torchlight in Rigopiano of Farindola to remember, to two months after the tragedy, the 29 victims of the avalanche that swept on the Jan. 18 Rigopiano Hotel. (Photo by Matteo Nardone/Pacific Press/LightRocket via Getty Images) (Photo: Pacific Press via LightRocket via Getty Images)

Quella mattina, Paolo D’Incecco non vuole andare a lavorare. È tormentato da una colica renale e vorrebbe andare al pronto soccorso. Ma il caos è tale che all’alba si mette al telefono e non se ne stacca più. Ne riceve una via l’altra. «L’emergenza è serissima. Il problema è a Roccacaramanica, la quantità di neve è superiore all’altezza delle lame»; «a Colle Corvino è emergenza, aspettiamo da ore»; «serve urgente un monitoraggio del ponte sul fiume Nora»; «bisogna intervenire subito a Rocca Morice»; «l’emergenza delle emergenze è a Sant’Eufemia». «Mi scoppia la testa», dice D’Incecco. Bisogna raggiungere i dializzati, i disabili, gli anziani: ce ne sono isolati a decine e hanno bisogno di cure quotidiane. Un sindaco gli sequestra una turbina, che servirebbe a liberare le strade provinciali, per liberare le sue strade comunali. Ecco, più o meno il quadro è fatto. Torniamo dunque alla telefonata choc.

Il sindaco di Farindola – il comune dell’hotel Rigopiano – per comunicare coi soccorritori deve uscire dal palazzo comunale, percorrere una strada, salire in cima a una scalinata: il telefono prende soltanto lì. Il paese è sotto la neve, le contrade irraggiungibili. «Ci sono file di macchine nella neve», dice. «La fila siamo andati a sbloccarla alle quattro del mattino. Erano andati a mangiare la pizza, tra parentesi», dice un collaboratore di D’Incecco. Anche il sindaco non è preoccupato per l’hotel. È in una zona fuori dal centro abitato, raggiungibile soltanto tramite una stradina resa impraticabile dalla neve. L’esigenza degli ospiti, comprensibilissima, è di lasciare l’hotel e tornarsene a casa. E comprensibilmente dall’hotel continuano a chiamare sollecitando il ripristino della strada. «Prima dobbiamo liberare Farindola, poi penseremo all’hotel», dice il collaboratore di D’Incecco, che risponde: «Bè, certo, ci mancherebbe». Così, dentro questa baraonda, quando gli arriva l’ennesimo sollecito da Rigopiano, D’Incecco perde la calma: «Mi ha rotto il cazzo l’albergo». Telefonata choc.

The pack rides past the ruins of the Rigopiano Hotel in Farindola during the 10th stage between Penne and Gualdo Tadino during the 101st Giro d'Italia, Tour of Italy cycling race, on May 15, 2018. The Rigopiano Hotel was overwhelmed by an avalanche on January 18, 2017 killing 29 people. (Photo by Luk Benies / AFP)        (Photo credit should read LUK BENIES/AFP via Getty Images) (Photo: LUK BENIES via AFP via Getty Images)

Potrei andare avanti a lungo. Se vi interessa una ricostruzione più ampia la trovate qua . C’è per esempio spiegato perché, dopo la slavina, i soccorsi tardano per almeno due ore, e forse in quelle due ore qualcuno poteva essere salvato: la notizia del crollo dell’albergo gira dalla mattina, ma era una notizia falsa. Quando arriva la notizia vera, nessuno la riconosce come tale («Allora guardi, questa storia va avanti da stamattina. I vigili del fuoco e i carabinieri si sono attivati, hanno fatto verifiche e non c’è nessun crollo… Purtroppo la mamma degli imbecilli è sempre incinta, sarà qualcuno che si diverte», dice una funzionaria della prefettura al telefono).

Non voglio ridimensionare il disastro di Rigopiano. Ci sono ventinove morti e sono le vittime, e lo sono i loro padri, le loro mogli, i loro figli, e se le loro morti dipendono da reati bisogna trovarne i responsabili e giudicarli. Ma le storie non vanno viste soltanto da davanti, vanno viste di lato, da dietro, da sopra. Bisogna inserirle nel contesto, mettersi nella pelle di tutti, domandarsi che cosa avremmo fatto noi al posto degli altri, significa sapere – e non so se sia questo il caso – che talvolta le tragedie non hanno colpevoli, talvolta sono l’esito inevitabile di un viluppo di circostanze e di coincidenze. Lo dico anche pensando al processo che si aprirà a Bergamo, la mia città, per la mancata zona rossa in Val Seriana, quando si trasformerà nella caccia al mostro.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.