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Scriviamo un nuovo Statuto del Lavoro per aiutare soprattutto chi non ce l'ha

Maurizio Del Conte (Photo: Riccardo AntimianiANSA)
Maurizio Del Conte (Photo: Riccardo AntimianiANSA)

(di Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro alla Bocconi)

A cinquantuno anni dalla sua nascita è venuto il tempo di far pace con lo Statuto dei lavoratori, liberandolo dal destino di ostaggio di guerriglie di posizionamento politico e tributandogli tutti gli onori che spettano alle grandi riforme che hanno contribuito al progresso sociale del paese.

Lo Statuto ha istituzionalizzato la presenza sindacale nelle fabbriche e negli uffici, ha bandito ogni forma di discriminazione dei lavoratori, ha anticipato di un quarto di secolo la tutela della privacy e ha arginato l’abuso del licenziamento. Nel 1970 la “legge 300” ha rappresentato per il lavoro un formidabile acceleratore del cambiamento, fornendo una architettura istituzionale capace di ricondurre ai principi costituzionali le convulse spinte sociali che caratterizzarono quell’epoca dell’Italia repubblicana. Quei principi si sono radicati nel tessuto profondo delle relazioni di lavoro, sia individuali che collettive, oltre che nella società nel suo complesso.

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Eppure, nel corso di oltre mezzo secolo di vita, non c’è parte dello Statuto che non sia stata riveduta e corretta da governi di diversa composizione e schieramento politico. Pur senza mai mettere in discussione l’assetto valoriale complessivo definito nel 1970, ne sono stati ripetutamente rimodulati i confini e la strumentazione. Così è successo, ad esempio, con l’allargamento del perimetro della disciplina antidiscriminatoria fino a ricomprendere altre dimensioni della identità della persona come l’età, l’orientamento sessuale, le condizioni di svantaggio fisico e psichico. Nell’ultimo decennio del secolo scorso, sotto l’impulso referendario, sono state modificate le regole dei meccanismi di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali stabilite nel testo originale del 1970, confermando la centralità del sindacato confederale, ma provando ad ancorarne la legittimazione a criteri oggettivi, come la effettiva partecipazione alle dinamiche contrattuali. Già a partire dal 1990, ma in misura ben più incisiva nell’ultimo decennio, è stata rivista la tutela contro il licenziamento illegittimo tanto che una norma dall’altissimo valore simbolico come l’articolo 18 ha resistito indenne al trascorrere del tempo, subendo già a partire dal 1990 diverse modifiche e adattamenti. Senza contare gli interventi della Corte costituzionale, che hanno spinto il legislatore a intervenire su singole disposizioni per adeguarle ai nuovi equilibri nelle relazioni industriali.

La verità è che nessuna grande riforma è per sempre. Tantomeno nella materia del lavoro, terreno preferito di ogni governo per lasciare il proprio marchio identitario. Perché, fin dalle sue più remote origini, il lavoro è destinato a cambiare e, con esso, cambia l’organizzazione economica e sociale. Ecco perché è sul lavoro che normalmente si investe buona parte del capitale politico di un governo. Salvo qualche rara eccezione, tra le quali spicca – almeno fino a ora – il governo attuale. Certo, si può pensare che l’eterogenea coalizione che sostiene l’esecutivo guidato da Mario Draghi impedisca il formarsi di una politica del lavoro forte e chiaramente definita, per l’effetto di elisione che si produce tra le forze politiche confliggenti che lo sostengono. Ma si tratta di una spiegazione insoddisfacente, considerata l’importanza che la dimensione del lavoro assume in ogni piega del progetto europeo del Next Generation EU che di questo governo è la ragione costituente. E’ un fatto che sul fronte del lavoro il governo si sia, fin qui, mosso soprattutto in difesa e con provvedimenti estemporanei. Esemplari in questo senso sono state la proroga, prima, e il successivo sblocco graduale dei licenziamenti, nonché la bozza del provvedimento contro le imprese che delocalizzano. Provvedimento, peraltro, rapidamente inceppatosi per la fragilità dell’impianto, volto sostanzialmente a guadagnare tempo attraverso la duplicazione e burocratizzazione di procedure già previste dal nostro ordinamento. Una iniziativa che, con eterogenesi dei fini, finirebbe per indebolire le stesse parti sociali alle quali le direttive europee rimettono il tentativo di individuare soluzioni condivise nelle diverse fasi di trasformazione dell’impresa. Il tutto a vantaggio di una gestione ministeriale che, nei suoi numerosi e tristemente noti precedenti, non ha mai brillato per i risultati.

Al netto di questi provvedimenti che riflettono più l’occasionalità di alcuni fatti di cronaca che una strutturata visione del lavoro, la sfida più importante che il governo dovrà affrontare con risposte convincenti è quella già definita nella missione 5 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Poco meno di cinque miliardi destinati a ridefinire il sistema delle politiche attive del lavoro del Paese. Non è certo la prima volta che questa materia è stata al centro di grandi riforme. A partire dalla fine del secolo scorso, con le straordinarie innovazioni introdotte dal “pacchetto Treu”, i governi che si sono succeduti alla guida del Paese hanno provato a realizzare un sistema di servizi per aiutare soprattutto le fasce più deboli dei disoccupati a inserirsi o reinserirsi nel mercato del lavoro. Sfortunatamente, mentre i paesi europei economicamente più solidi procedevano speditamente nel costruire strutture efficaci e capillari su tutto il territorio, il cammino delle riforme dei servizi per il lavoro in Italia si impantanava nelle politiche restrittive di bilancio, imposte dal peso di un debito pubblico divenuto insostenibile a fronte di una perdurante stagnazione economica. Così, sia i tentativi della breve esperienza del governo Monti che la ben più articolata riforma delle politiche attive introdotta con il Jobs Act del governo Renzi presentavano il vizio originale di dover fare i conti con il fragilissimo sistema già presente sul territorio. Usando una metafora calcistica, si era pensato di poter vincere un campionato di serie A limitandosi a cambiare lo schema di gioco, ma tenendo gli stessi giocatori, adatti al più a giocare in una serie cadetta. Persino il ruolo di regista, assegnato alla Agenzia Nazionale delle Politiche Attive, è stato immaginato a “costo zero”.

Dopo decenni di incuria e di disinteresse dello Stato, la squadra messa in campo dal lato pubblico avrebbe dovuto essere profondamente ricostruita. Ma, si è detto, non c’erano i soldi per una operazione così radicale. Oggi la situazione si è paradossalmente invertita. Le risorse finanziarie sono abbondanti, ma sembra mancare la volontà politica di rinnovare la squadra messa in campo. Il programma “Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori”, simpaticamente identificato con l’acronimo “GOL”, è destinato a riversare una quantità di risorse economiche senza precedenti nelle tasche degli stessi interpreti che hanno sin qui partecipato alle politiche attive del nostro paese, mentre lo schema di gioco è stato ripreso da quello del vecchio programma Garanzia Occupazione Giovani. Detto che le risorse sono condizione imprescindibile per far funzionare una rete territoriale di servizi ai cittadini in cerca non solo di lavoro, ma anche di strumenti formativi che possano rimetterli in condizione di partecipare al mercato del lavoro, se il governo non sarà capace di ridisegnare gli strumenti, i processi organizzativi e i soggetti erogatori delle misure, l’esito più prevedibile è quello di un enorme spreco di risorse.

Senonché in questa fase storica l’Italia non si può permettere di fallire nel più importante programma europeo mai varato dalla firma dei trattati di Roma nel 1957. Mezzo secolo dopo la legge 300, l’Italia ha l’occasione di scrivere un nuovo “Statuto del lavoro” in grado di essere ricordato per altri cinquant’anni per aver trasformato in positivo l’esperienza, destinata a diventare sempre più fisiologica, della perdita e della ricerca del lavoro. Ma è necessario un deciso cambio di passo se si vuole che al piano nazionale di ripresa del lavoro del 2021 venga in futuro riconosciuta la stessa capacità di incidere sul progresso sociale del paese che ha avuto lo Statuto del 1970.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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