Annuncio pubblicitario
Italia markets open in 4 hours 27 minutes
  • Dow Jones

    38.790,43
    +75,66 (+0,20%)
     
  • Nasdaq

    16.103,45
    +130,27 (+0,82%)
     
  • Nikkei 225

    39.596,29
    -144,15 (-0,36%)
     
  • EUR/USD

    1,0878
    +0,0001 (+0,01%)
     
  • Bitcoin EUR

    60.346,69
    -2.108,60 (-3,38%)
     
  • CMC Crypto 200

    885,54
    0,00 (0,00%)
     
  • HANG SENG

    16.632,38
    -104,74 (-0,63%)
     
  • S&P 500

    5.149,42
    +32,33 (+0,63%)
     

Sempre più aziende italiane in mani straniere. Ma non sempre è un male

Sempre più aziende italiane in mani straniere. Ma non sempre è un male

Pirelli passata sotto il controllo di ChemChina. Pininfarina sempre più vicina all'indiana Mahindra&Mahindra. Ormai non passa settimana senza che un'azienda italiana di peso non passi sotto il controllo di un gruppo estero. Un trend che crea grande allarme tra gli osservatori, anche se non sempre le preoccupazioni sono giustificati.

In 300 in mani cinesi
Negli ultimi anni sono stati soprattutto i cinesi a fare acquisti a man basse di asset italiani. Circa 300 le aziende tricolore passate di mano, compresi brand come il gruppo nautico Ferretti, quelli della moda Krizia e Miss Sicty e, nell'industria, BredaMenariniBus. Poi ci sono le partecipazioni di minoranza acquisite dalla People's Bank of China in settori strategici come Eni, Enel, Telecom Italia, Prysmian e Fca.
La campagna d’Italia è molto intesa anche tra gli altri Paesi occidentali. Basti pensare a Poltrona Frau finita nelle mani degli americani di Haworth e la pasticceria Cova passata ai francesi di Lvmh. In precedenza avevano varcato le Alpi anche Valentino, Loro Piano, Star, Carapelli, Bulgari, Giugiaro e Lamborghini.

Le ragioni della svendita
Da più parti si è parlato di "svendita" dei gioielli italiani ed è difficile dar torto a questo orientamento, dato che molte delle operazioni citate sono andate in porto a multipli inferiori rispetto ai competitor internazionali. Un trend giustificato sul mercato dal rischio Italia che si assumono gli investitori (il peso fiscale, la lentezza della giustizia e la burocrazia monstre pesano sulle valutazioni) e dalla debolezza dei consumi interni.

Rischio oppure opportunità?
Detto questo, non sempre le preoccupazioni sono motivate. Di certo lo spostamento dell’headquarter all’estero può portare nel tempo a una perdita di know-how nel nostro Paese, ma non sempre le ricadute occupazionali delle acquisizioni straniere sono risultate negative. Un esempio: quando, nel 1999, Louis Vuitton  acquisì Fendi, tanti osservatori ipotizzarono il declino per il brand romano, che in 15 anni in realtà ha moltiplicato occupazione e fatturato.
Un discorso simile vale per Bottega Veneta e Gucci, mentre Ferrè, acquisita nel 2011 da Paris Group, è finita nel dimenticatoio. Quanto basta per concludere che l’allarmismo sull’italianità dispersa non è sempre motivato (a maggior ragione quando non ci sono offerte alternative provenienti dal nostro Paese). Quel che più conta, insomma, non è la nazionalità del proprietario, ma la qualità del lavoro.