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Sentenza Facebook Australia: "Così ai giornali non converrà restare sui social"

Facebook logo displayed on a phone screen is seen through raindrops on the window in this illustration photo taken in Krakow, Poland on July 17, 2021.  (Photo Ilustration by Jakub Porzycki/NurPhoto via Getty Images) (Photo: NurPhoto via Getty Images)
Facebook logo displayed on a phone screen is seen through raindrops on the window in this illustration photo taken in Krakow, Poland on July 17, 2021. (Photo Ilustration by Jakub Porzycki/NurPhoto via Getty Images) (Photo: NurPhoto via Getty Images)

In Australia gli editori sono responsabili dei commenti diffamatori che i lettori pubblicano sulle pagine Facebook delle loro testate. Lo ha stabilito l’Alta corte di giustizia australiana in una sentenza destinata a essere oggetto di un aspro dibattito a livello internazionale. “Qui stiamo parlando di una sentenza storica” commenta a caldo il prof. Oreste Pollicino, ordinario di diritto costituzionale e diritto dei media alla Bocconi di Milano, in un colloquio con HuffPost. “Attendiamo le motivazioni della sentenza, ma da quanto emerge, i giudici australiani non si limitano solo ad addossare la responsabilità ai giornali. La sentenza stabilisce anche che gli editori dovranno fare attenzione a non pubblicare su Facebook contenuti che potrebbero causare hate speech tra i commenti. Una decisione che farà discutere, non ho dubbi”.

Tutto parte dal caso di Dylan Voller.

In un video, il ragazzo viene incappucciato e incatenato ad una sedia dalla polizia australiana durante un suo arresto. Le immagini, diffuse dai principali quotidiani del paese, sono diventate oggetto di commenti diffamatori degli utenti su Facebook. Il giovane, all’epoca dei fatti minorenne, decide di denunciare le testate per quei commenti, portandole in tribunale. La più alta corte australiana gli dà ragione: la maggior parte delle grandi testate australiane, tra cui quelle del gruppo Murdoch, dovranno risarcire Voller.

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“Le media companies coinvolte hanno facilitato, se non addirittura incoraggiato, la condivisione di commenti diffamatori verso Voller sulle rispettive pagine di Facebook. Questi giornali vanno considerati come effettivi editori anche dei commenti” si legge in un paragrafo della sentenza citato da Reuters. Non è la prima volta, quest’anno, che in Australia si interviene a gamba tesa nel rapporto tra Facebook e i grandi media. A marzo il Parlamento di Canberra ha approvato una legge che costringe i social network a pagare gli editori per le notizie che vengono condivise online. Solo il penultimo round del lungo braccio di ferro, in corso da anni, tra i social e le news. Ora, la sentenza sul caso Voller.

NEW YORK, NY - MAY 11: The sun reflects off the corporate logo of News Corporation at their headquarters on 6th Avenue on May 11, 2019 in New York City. (Photo by Gary Hershorn/Getty Images) (Photo: Gary Hershorn via Getty Images)
NEW YORK, NY - MAY 11: The sun reflects off the corporate logo of News Corporation at their headquarters on 6th Avenue on May 11, 2019 in New York City. (Photo by Gary Hershorn/Getty Images) (Photo: Gary Hershorn via Getty Images)

“La decisione avrà un’enorme importanza nel rapporto tra social network da una parte e testate giornalistiche dall’altra” spiega ad Huffpost l’avvocato Carlo Melzi D’Eril, tra i maggiori esperti di diritto dell’informazione in Italia. “In futuro vedo due possibili strade da seguire. O si va avanti, come si è fatto fino ad oggi, con la possibilità per ognuno di scrivere quello che vuole sui social, senza poter verificare la sua identità. E quindi senza poter attribuire a quella persona alcuna responsabilità. Oppure si verificheranno le identità degli account, limitando la responsabilità di testate e piattaforme digitali per i ‘danni’ che le persone possono combinare online”. Non basterebbe, molto banalmente, disattivare i commenti sotto alle notizie? “È la scelta di chi vuole rischiare il meno possibile. Però c’è sempre un doppio lato della medaglia. La mossa potrebbe purificare l’aria che tira sui social, ma renderebbe l’agorà digitale un posto molto meno ‘democratico’, con un conseguente impoverimento del dibattito online”.

Le conseguenze della sentenza australiana non finiscono qui. Michael Miller, presidente di News Corporation Australia, ha dichiarato che la decisione avrà delle ricadute negative per il giornalismo: “Così diventiamo responsabili per i commenti pubblicati sulle nostre pagine anche quando non li abbiamo letti”. Il grido d’allarme lanciato da Miller ha i suoi fondamenti anche secondo Pollicino, della Bocconi: “Il ragionamento dei giudici australiani è opinabile. Loro addossano ai giornali la responsabilità dell’hate speech di chi commenta anche quando c’è un semplice rischio che il contenuto editoriale possa in qualche maniera istigarlo. Praticamente, ogni giornale sarebbe costretto di volta in volta a chiedersi se i propri post avranno effetti negativi sul dibattito che va in onda ventiquattro ore su ventiquattro sui social”.

Uno scenario che ha delle implicazioni molto pesanti sulla libertà di stampa. “Può dirlo forte. La libertà di stampa, oggi, non è solo la libertà di pubblicare articoli di giornale su carta stampata, ma anche di partecipare liberamente all’agorà digitale dei social network” spiega Pollicino. “Se questa partecipazione è però condizionata dalla paura e dalla possibilità che una notizia pubblicata online possa causare una pioggia di commenti diffamatori, allora siamo di fronte ad un disincentivo che può limitare la libertà di stampa sulle piattaforme”.

Anche perché, in uno scenario del genere, l’hate speech potrebbe essere abilmente orchestrato proprio per imbavagliare i giornali. “In Italia ci potremmo ritrovare in una situazione paradossale per l’informazione. Un’agorà digitale che rischia di essere popolata solo da chi non fa informazione professionale, cioè da soggetti che non sono registrati in tribunale come testate giornalistiche. Mi riferisco a persone singole e a blog d’informazione non professionale. E questo è un problema: perché il social network ha bisogno di informazione fatta da professionisti, e non solo di giornalismo dal basso”. È uno scenario possibile? Per ora, è solo una sentenza emessa da un tribunale all’altro capo del mondo.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.