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La solitudine della Bce

Mario Draghi ha elencato tre condizioni per rialzare i tassi di interesse. Nessuna delle quali sembra prossima a realizzarsi in Europa. Perché la Banca centrale europea è sola nell’affrontare la lunga crisi, ancora e sempre orfana della politica fiscale.

L’analisi di Draghi

Non si è trattato soltanto di difendere la politica della Banca centrale europea dalle critiche tedesche e di raffreddare le attese di rialzo dei tassi. Nell’intervento al convegno The ECB and Its Watchers, Mario Draghi ha anche fornito la propria chiave di lettura del successo e dei limiti del pacchetto di misure varato il 5 giugno del 2014.

Il pacchetto, ricordiamolo, ha oggi tre ingredienti:

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  1. le operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine, grazie alle quali le banche più virtuose nel concedere credito a imprese e famiglie possono finanziarsi anche a tassi negativi;

  2. la tassa dello 0,40 per cento sul saldo in eccesso dei conti delle banche presso la Bce;

  3. il programma di acquisti definitivi di titoli di debito privato e pubblico.

L’esito dell’uso combinato di queste misure è stato quello di trascinare verso il basso il costo del debito su tutte le scadenze, come si vede dal mutato profilo della curva dei rendimenti dal giorno dell’annuncio a oggi (figura 1). Quando il presidente della Bce (Toronto: BCE-PRA.TO - notizie) afferma che “la politica monetaria funziona”, si riferisce in primo luogo proprio a questo.

Figura 1 – La curva dei rendimenti dell’euro tre anni fa e oggi (prima e dopo il discorso di Draghi)

Quanto agli effetti che il calo dei tassi ha a sua volta sulla domanda aggregata, Draghi riconosce che l’impatto sulla domanda interna è ancora debole. Gli investimenti del settore privato non scendono più come nel 2012-13, ma crescono ancora troppo poco e le condizioni finanziarie favorevoli si sono caso mai tradotte in un calo dell’indebitamento privato. La capacità inutilizzata e la disoccupazione restano ancora elevate. E il vero sostegno alla ripresa dell’area euro è venuto dall’export.

Questo, afferma Draghi, è stato favorito dall’accresciuto differenziale dei tassi con la Fed. Grazie ai tassi ultra-bassi e alle mutate preferenze di portafoglio (anche, se non soprattutto, a causa di una riduzione delle riserve ufficiali estere in euro), il deprezzamento dell’euro sul mercato dei cambi ha potuto sostenere la componente estera della domanda pur in una fase di rallentamento del commercio mondiale. Altri motori non ce n’è, vista la continua e colpevole assenza di una politica fiscale europea, se non centrale, almeno coordinata. Su questo non resta che affidarsi agli esiti del lavoro che il nuovo Fiscal Board sta svolgendo per una “fiscal stance” (politica di bilancio) europea. Nel (Londra: 0E4Q.L - notizie) frattempo, la salute del grande mercato unico europeo resta legata al saldo delle partite correnti, che nel 2016 è cresciuto fino a raggiungere il 3,4 per cento del Pil.

L’altro fattore che, secondo Draghi, ha giocato a favore è il calo del prezzo del petrolio, che oggi viaggia a un livello che è la metà di quello di inizio 2014. Qui però le cose si fanno più complicate, perché se l’Europa può averne in parte beneficiato, è stato proprio il calo dei prezzi petroliferi a innescare, nel 2015, una diminuzione degli investimenti americani legati al settore dello shale oil, che è probabilmente il fattore più responsabile del rallentamento dell’occupazione negli Stati Uniti (figura 2).

Figura 2 – Stati Uniti: Occupazione (“Non farm payroll”) e prezzo del petrolio

Tre condizioni per alzare i tassi

Dunque, ben si comprende come Draghi abbia voluto raffreddare gli animi di chi aveva voluto interpretare il passaggio, in aprile, dagli 80 ai 60 miliardi al mese nel programma di acquisti come un preavviso di rialzo dei tassi a breve. La figura 1 mette bene in evidenza il calo della curva dei rendimenti in risposta al discorso del presidente della Bce.

Mario Draghi ha dunque elencato tre condizioni per rialzare i tassi: che l’inflazione dell’area euro ritorni al livello obiettivo, che si dimostri stabile e che sia in grado di reggersi anche senza il sostegno della politica monetaria. Nessuna delle tre, secondo la Bce, sembra prossima a materializzarsi. Anche a causa di una dinamica salariale troppo bassa, che la banca centrale ritiene durerà ancora a lungo, visto che la crisi ha fatto aumentare sia il numero di persone che potrebbero lavorare ma non cercano lavoro (gli “scoraggiati”) sia quello dei sotto-occupati: quando la ripresa si farà più robusta il riassorbimento di questi lavoratori contribuirà a mantenere bassi i salari.

Se è vero che la politica monetaria della Bce ha funzionato principalmente attraverso il canale del cambio, se è vero che la ripresa dipende fortemente dall’evoluzione della domanda estera e se è vero che l’economia americana potrebbe rallentare ancora, non può certo sorprendere che la Bce consideri la ripresa ancora troppo fragile per cambiare regime. Ed è questa la solitudine della Banca centrale europea, ancora e sempre orfana della politica fiscale.

Di Andrea Terzi

Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online