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Suicidio assistito e impero procedurale (di A. Pessina)

Aderenti all'Associazione Luca Coscioni davanti al palazzo di Giustizia.ANSA/LUCA ZENNARO (Photo: LUCA ZENNARO ANSA)
Aderenti all'Associazione Luca Coscioni davanti al palazzo di Giustizia.ANSA/LUCA ZENNARO (Photo: LUCA ZENNARO ANSA)

(a cura di Adriano Pessina, professore ordinario di Filosofia Morale, docente di Bioetica – Università Cattolica, campus di Milano)

Comprendere non significa, in sé, condividere. Occorre fare questa annotazione se si vuole aprire seriamente un dibattito sull’introduzione del suicidio assistito come presunta risposta alla situazione di sofferenza esistenziale e di dolore fisico di una persona malata. La questione, bisogna avere il coraggio di dirlo, va ben oltre il caso del signor Mario e della sua rivendicazione di una libertà di morire che diventa, nel modello del suicidio di stato, una sorta di affermazione del “diritto di morire”. Questa è una questione seria, che coinvolge ognuno di noi e la responsabilità che abbiamo verso gli altri all’interno di una comunità umana che non è semplicemente una comunità giuridica.

Ogni suicidio è sempre una sconfitta intersoggettiva che apre l’interrogativo: abbiamo fatto abbastanza perché ciò non accadesse? Il suicidio assistito si trasforma in una implicita e tacita istigazione laddove non pone a tema questa domanda: come è cambiata la nostra percezione del significato e del valore della persona umana laddove la scelta di morire viene presentata e persino esaltata nei termini di una scelta di libertà e di una rivendicazione dell’autonomia? Non si può pretendere che tutti riconoscano come un valore, come un bene, la scelta di morire di una persona che chiede allo Stato, alla burocrazia formale di un Comitato etico, un’autorizzazione e un sostegno pratico. Accettare questa procedura significa accettare di far tacere la domanda sul significato e sul valore del tempo della malattia e della sofferenza umana.

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L’appello alle cure palliative risulta insufficiente laddove la scelta di morire non si radica più soltanto nella situazione, ma nella volontà del soggetto che le rifiuta. Le situazioni possono e debbono essere modificate, ma questo impegno richiede, in primo luogo, profonde risorse morali che si trasformino in concrete prassi di assistenza. Ma è molto più facile “prendere atto” di criteri formali, interpretabili a seconda dei casi, della volontà di morire di una persona piuttosto che interrogarsi sulla responsabilità sociale e culturale che conduce qualcuno nel gorgo di una tale disperazione per cui si rallegra di poter morire e di poter essere d’esempio per tutti coloro che soffrono, invece di domandarsi e domandarci che cosa dobbiamo far per sostenere la sua vita, ridarle speranza di significato e di valore.

Il suicidio assistito rimette in campo lo stigma della malattia e del dolore perché si configura come un vero e proprio abbandono terapeutico, sociale e culturale. E che sia un comitato che si fregia dell’appellativo di “etico” ad avallare questa scelta, che va ben oltre il rifiuto dei trattamenti o la valutazione di trattamenti sproporzionati, è il segno dell’impero procedurale con cui si affrontano le questioni difficili e complesse. La legge, oggi, permette queste scelte, e forse domani permetterà anche la pratica dell’eutanasia, ma la coscienza morale non può restare indifferente ed essere silenziata in nome della libertà altrui perché favorire la morte di qualcuno significa favorire la morte della nostra personale umanità, offuscare il dovere primario di riconoscere che il valore di una persona umana richiede sempre e solo atti di cura e di assistenza.

Non sappiamo che cosa farà il signor Mario di fronte alla possibilità legalmente riconosciuta di togliersi la vita e alle attese di chi plaude a questa scelta, delineando di fatto una pressione mediatica, ma è bene che sappia che molti di noi vorrebbero che esercitasse la sua libertà per rivendicare, per sé e per chi come lui soffre, il diritto di nuove forme di assistenza e di cura. Un suicidio non è mai un bene di cui rallegrarsi e che sia lo Stato a farsene difensore apre una ferita culturale e sociale nell’ideale di una democrazia sostanziale e non puramente procedurale che non dovrebbe mai permettersi di avallare l’immagine e il linguaggio di vite indegne di essere vissute.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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