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La tassa sui licenziamenti

Nella riforma del lavoro di Elsa Fornero, secondo Italia Oggi, sarebbe contenuta una vera e propria "tassa sui licenziamenti". Di fatto, il testo della riforma prevede in effetti un ostacolo al licenziamento, ma solo in termini economici.

E' una semplificazione, certo, ma quel che emergerebbe dai numeri è il fatto che questa clausola, pensata, appunto, per rendere "più difficile" licenziare - a fronte di uno smantellamento progressivo delle tutele dei lavoratori - e che andrà a finanziare i nuovi ammortizzatori sociali (ovvero l'Aspi e la mini Aspi, in sostituzione dell'attuale forma di ammortizzatori sociali per disoccupati), si configura ne più ne meno che come un balzello per il datore di lavoro che licenzia.

Quindi si arriverebbe al paradosso assoluto: chi ha disponibilità economiche tutto sommato può licenziare, chi non ne ha - magari le aziende in crisi - invece dovrà farsi bene i conti in tasca. Conti che ha provato a fare proprio Italia Oggi, secondo la quale «per licenziare il dipendente assunto l'anno prima, con retribuzione di 2 mila euro mensili, bisognerà staccare all'Inps un assegno di 545 euro». Una cifra che diventa di 1.090 euro se l'assunzione risale a due anni prima e 1.635 se invece il dipendente lavora per l'azienda da più di tre anni. In caso di licenziamenti collettivi e senza il benestare dei sindacati sul licenziamento, infine, il ticket si triplica letteralmente.

Questo contributo di licenziamento da versare all’Inps – che si aggiunge ai contributi disincentivanti per i rapporti di collaborazione a tempo determinato – sarà pari, per la precisione, a 0,5 mensilità di indennità per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni.
E' un meccanismo che si sostituisce alle attuali aliquote a carico dei datori di lavoro. Tuttavia, secondo le simulazioni già proposte dalla CGIA di Mestre, l'operazione aumenterà in maniera significativa le tasse a carico delle aziende.