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Trattativa a un passo dalla rottura, Mps torna ad essere una grana

UKRAINE - 2021/08/07: In this photo illustration a Monte dei Paschi di Siena (known also as BMPS or just MPS) logo of an Italian bank is seen on a smartphone and a pc screen. (Photo Illustration by Pavlo Gonchar/SOPA Images/LightRocket via Getty Images) (Photo: SOPA Images via Getty Images)
UKRAINE - 2021/08/07: In this photo illustration a Monte dei Paschi di Siena (known also as BMPS or just MPS) logo of an Italian bank is seen on a smartphone and a pc screen. (Photo Illustration by Pavlo Gonchar/SOPA Images/LightRocket via Getty Images) (Photo: SOPA Images via Getty Images)

È quando si prende già in considerazione il piano B che si capisce come il piano A sia vicino al fallimento. Ecco perché i contatti informali che il Governo ha attivato nelle ultime ore con Bruxelles, secondo quanto riferiscono fonti di primo livello a Huffpost, sono l’indicatore più idoneo a misurare lo stato di crisi della trattativa con UniCredit per la vendita di Monte dei Paschi di Siena. Come anticipato dall’agenzia Reuters, il Tesoro avrebbe giudicato “troppo punitiva” la richiesta di iniettare 7 miliardi di soldi pubblici nella banca senese, ma le distanze sarebbero incolmabili anche su molti altri punti, come gli esuberi, più in generale sul perimetro dell’operazione. A sabato sera non ci sono margini per un riavvicinamento tra le parti. Fosse una pura operazione industriale tra due banche sarebbe un problema, ma non un dramma. Però Mps è una banca pubblica ed è anche la possibilità di uscire da una storia, lunga 15 anni, fatta di soldi bruciati e manette. Ancora la banca che deve liberarsi definitivamente da quella coltre politica che ha visto protagonista la sinistra, che di Siena ha fatto la sua banca-costola per interi decenni, ma anche i 5 stelle e la Lega che hanno usato sempre Mps per rivalersi sulla stessa sinistra.

La vendita di Mps a UniCredit chiuderebbe la lunga stagione del salvataggio pubblico inaugurata nel 2017 dal governo Gentiloni e poi validata da tutti gli altri esecutivi che si sono via via susseguiti. Sancirebbe il ritorno alla normalità perché anomalo è l’intervento dello Stato, necessario sì a salvare i correntisti e i loro risparmi, ma risultando pur sempre un soggetto estraneo alle dinamiche del mercato. E poi il prezzo del paracadute lo paga la collettività, cioè tutti gli italiani. Da quest’ultimo elemento si capisce bene anche perché tutti i governi vorrebbero tenersi alla larga dai salvataggi pubblici. Invece l’esborso c’è stato e anche ingente: 5,4 miliardi. E altri soldi pubblici vanno tirati fuori ancora perché UniCredit o qualsiasi altra banca non comprerà Mps senza prima che qualcun altro, lo Stato appunto, non provveda a renderla più sana, rafforzandone la capacità patrimoniale, e meno sporca, togliendo di mezzo i crediti deteriorati.

Ma uno sforzo aggiuntivo per le casse pubbliche è stato messo in conto fin da quando Mps è stata salvata perché in un mercato che predilige le fusioni tra le grandi banche, Rocca Salimbeni è rimasta sempre un vulnus. Non è una banca piccola, come lo poteva essere Etruria o le venete, ma è pur sempre un istituto che ha avuto bisogno di quattro anni per rimettersi in piedi. In piedi, non in corsa. Il fatto che solo UniCredit si sia fatta avanti per comprare il Monte è già indicativo della difficoltà di appeal che la banca continua ad avere. Basta guardare all’ultimo bilancio: quasi 1,7 miliardi di rosso. E i primi tre mesi di quest’anno hanno aggiunto altri 119 milioni. Resta debole, la peggiore tra le principali banche europee negli stress test che misurano il grado di resistenza a shock e crisi: il Cet1, l’indicatore principale di questi test, sarebbe addirittura negativo nel 2023. E il fatto che questa dinamica si sia già registrata nel 2016, poco prima del salvataggio pubblico della banca, spiega bene la ciclicità del rischio.

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Mps è un po’ come Alitalia: le cose vanno male, anzi malissimo, arriva lo Stato, ci mette i soldi, poi si prova a trovare un operatore privato che la compri. Intanto, come sta avvenendo con Ita, la nuova compagnia aerea che ha preso il posto di Alitalia, si prova a non fare un passo indietro nel burrone. Se la trattativa con UniCredit non ritorna su un binario positivo le cose si mettono davvero male. Innanzitutto perché non c’è un altro cavaliere bianco all’orizzonte. Non è solo un problema di prolungare l’attesa, la questione riguarda la possibilità di aspettare ancora. In base agli accordi presi tra il governo italiano e Bruxelles, infatti, Mps va ceduta al mercato entro la metà dell’anno prossimo. Considerando che prima di comprare una banca servono mesi per controllarne i dati, poi c’è bisogno di tempo per capire quali sono le condizioni per l’acquisto, è evidente che non ci sono margini per rispettare la scadenza. Ecco perché, come si diceva, il Governo avrebbe già informato la Commissione europea della possibilità di inviare presto una richiesta di proroga dei termini, allungandoli almeno fino alla fine del 2022.

Al momento altre strade non ci sono: Mps resterebbe da sola, senza tentare operazioni di fortuna. Trovare una via d’uscita immediata, alternativa a UniCredit, significherebbe svendere la banca. Ma questo Mario Draghi non lo vuole. Il Tesoro ha provato a venire incontro alla banca guidata da Andrea Orcel, alzando la quota della ricapitalizzazione a quattro miliardi, ma dall’altra parte sarebbe arrivato un secco no. Sette miliardi, quanto sono i soldi che vorrebbe UniCredit, sono ritenuti però un massacro. Insomma ci sono tre miliardi che non tornano. La proroga del controllo pubblico però non è a saldo zero. Il Tesoro ha già messo in conto un aumento di capitale, ma il paracadute lo pagheranno ancora una volta gli italiani.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.