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Trump comincia dal protezionismo. Ma ha studiato la storia?

Molti tra gli analisti ed i guru, che per mestiere hanno il compito di prevedere gli scenari per il futuro, concordano sul detto che è il mattino che ha l’oro in bocca, o, se preferite, che il buongiorno si vede dal mattino. Ovvero, per giudicare la credibilità di Trump molto importanti sarebbero stati i primi provvedimenti concreti. Dopo il diluvio di insulti e promesse sono ora i fatti che ci permettono di verificare l’entità del tasso di esagerazione del programma di Trump. Ma anche di vedere quale parte delle sue numerose rivoluzioni egli decide di attuare per prima. Perché il programma di Trump è una sorta di Giano Bifronte. Possiede una faccia fortemente favorevole alla crescita, quella sulle riduzioni di tasse, la creazione di opere pubbliche, e la deregolamentazione. Ma anche una faccia fortemente protezionistica e potenzialmente recessiva, cioè quella che vuole cancellare accordi di libero scambio, alzare muri doganali a suon di dazi e scardinare la libertà di scambio, che è stata uno dei più potenti driver di crescita globale portato dalla globalizzazione, che lui vuole abbattere per santificare un termine, “protezionismo”, che siamo abituati da decenni a considerare malvagio come la peste per il benessere globale.

Lo rivela la storia dell’economia, passata e recente, che forse Trump non ha mai studiato, dato che la sua carriera studentesca è stata costellata di passi incerti e titoli acquisiti in ambigue scuole private più per il nome che portava che per meriti di studio.

Le varie tappe della rivoluzione industriale degli ultimi 3 secoli, che crearono il sistema capitalistico occidentale e portarono il benessere il vasta parte del mondo furono rese possibili ed adeguatamente oliate dallo sviluppo del commercio internazionale. Per converso gli incidenti di percorso, cioè le più gravi crisi economiche, tra cui spicca la grande crisi del ’29, che fermò l’avanzata del benessere e causò l’ascesa al potere della tirannia in Europa, da cui sfociò la terribile seconda guerra mondiale, furono accompagnate e favorite dalla contrazione dei commerci mondiali e dall’introduzione di misure protezionistiche su vasta scala. Più recentemente, accanto ai danni che portò in termini di accrescimento delle disuguaglianze, tutti concordano che la globalizzazione, con l’abbattimento di molte barriere protezionistiche e la liberalizzazione di scambi e movimenti di merci e capitali, fu una molla potente per rivitalizzare la crescita mondiale e far emergere miliardi di persone dalla povertà assoluta e dalla morte per fame. Ce lo dicono gli storici e sull’argomento sono state scritte tonnellate di carta. Ma si sa che a Trump non piace leggere e considera chi scrive come un nemico, a meno che scriva elogi alla sua persona.

Ebbene, se il primo atto ufficiale, già la sera stessa dell’insediamento, è stato un ordine esecutivo che autorizza le agenzie Federali a ridurre il più possibile i costi di Obamacare, boicottando così la diffusione dell’assistenza sanitaria alle categorie più povere e favorendo le società di assicurazione, le aziende farmaceutiche ed i medici, il secondo importante atto è stato compiuto ieri ed è stato il rigetto, prima che venga ratificato, del trattato TPP firmato da Obama per favorire gli scambi con la maggior parte dei paesi del Pacifico. Inoltre ha avviato i primi contatti con Canada e Messico per rinegoziare bilateralmente accordi che oggi sono compresi nel NAFTA, il trattato che riguarda il commercio con i paesi del continente americano, per modificarli in senso più favorevole agli USA.

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Ha anche avviato incontri con i manager di parecchi colossi multinazionali, americani e non, affinché gli presentino progetti di rilocalizzazione delle produzioni in USA, minacciando l’introduzione di un cospicuo dazio, che lui chiama “Border Tax”, sull’importazione in USA di merci prodotte da imprese americane all’estero.

Prendiamo perciò atto che la priorità del nuovo presidente USA è il protezionismo, in base alla scommessa antistorica che alzando muri si aumenterà il benessere degli americani.

Wall Street sta assistendo interdetta a questa prima ventata di stranezze. Ieri gli indici USA sono scesi nella parte iniziale ed hanno recuperato buona parte delle perdite nella seconda parte della seduta. L’impressione è quella del disorientamento degli investitori. La domanda che si stanno ponendo è come sia possibile per le multinazionali americane, che sono il grosso della polpa degli indici di borsa, aumentare i profitti se dovranno scegliere tra una cospicua riduzione delle loro vendite, nel caso decidano di lasciare le produzioni all’estero, oppure affrontare investimenti ingenti per tornare a produrre a costi più alti in USA, col rischio che il mercato americano non riesca ad assorbire la loro produzione e, dovendo esportare il surplus, vengano a pagare dazi negli altri paesi, che verosimilmente reagiranno alla guerra commerciale scatenata da Trump imponendo ritorsioni protezionistiche.

La situazione dei bilanci aziendali sarebbe forse riequilibrata se arrivassero i cospicui sgravi fiscali promessi da Trump e l’attivazione degli investimenti in infrastrutture facesse ripartire alla grande le vendite in USA. In questo caso il conto lo pagherebbe quasi per intero il debito pubblico e le generazioni future, riproducendo su vasta scala lo schema Ponzi su cui il genio della finanza dai capelli arancione (a proposito, sbaglio o ultimamente ha ridotto la tintura?) ha tenuto il piedi il suo impero.

Ma di questi provvedimenti pro-crescita per ora non c’è traccia. Ecco perché negli investitori comincia a traballare la cieca fiducia nel ricco imbroglione.

Le borse europee hanno chiuso mentre Wall Street ingigantiva le perdite e collezionato cali generalmente superiori al mezzo punto percentuale. Oggi forse recupereranno qualcosa, almeno in apertura, scontando un po’ del recupero della seconda parte della seduta americana. La situazione resta molto incerta e sospesa.

Oggi avremo per il nostro mercato e la credibilità internazionale dell’Italia un’altra importante prova. Dovrebbe arrivare la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum. Ci darà una legge elettorale immediatamente applicabile, in modo da mandarci presto alle urne, oppure si limiterà a consigliare un ventaglio di interventi su cui il Parlamento dovrà scegliere e mettersi d’accordo almeno in maggioranza? Nel (Londra: 0E4Q.L - notizie) secondo caso Gentiloni resterà a lungo e la guerriglia che immobilizza l’Italia continuerà, con possibili effetti negativi sulla nostra immagine internazionale, che già non va molto oltre la solidarietà che stiamo ricevendo per i terremoti ed il maltempo.

Autore: Pierluigi Gerbino Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online