Tutti d'accordo sulla Libia, ma solo sulla carta
Discutere è sempre meglio che ricorrere alle armi, un incontro sempre preferibile a uno scontro. Animati da questo lapalissiano sentimento, i ministri di diciassette Paesi, tra cui gli Usa con Antony Blinken, e di quattro organizzazioni internazionali di prima grandezza (Onu, Unione Africana, Ue e Lega Araba) si sono diligentemente ritrovati ieri a Berlino per la seconda Conferenza sulla Libia. Anche la prima si era svolta nella capitale tedesca, a gennaio 2020, in un mondo ancora ignaro del Covid e su una Libia in balia di tensioni cruente, tanto che non vi parteciparono rappresentanti libici.
Oggi il quadro è diverso. A Tripoli il nuovo governo transitorio di unità nazionale, guidato da un pragmatico e ricco imprenditore, Abdul Hamid Dbeibeh, ha il compito di traghettare il Paese verso le elezioni previste per il 24 dicembre. Regge per ora il cessate il fuoco, milizie locali e combattenti stranieri mantengono le loro posizioni e le sponsorizzazioni esterne a Tripolitania (Turchia, Qatar) e Cirenaica (Russia, Emirati) non accennano a diminuire. Dopo mesi di violenze, le armi tacciono ma le cesure restano e sotto la cenere il fuoco è tutt’altro che spento. Da qui l’idea di una nuova riunione internazionale, questa volta con i libici, per favorire una stabilizzazione già troppo a lungo inseguita senza successo.
Gli obiettivi, come ricordato con chiarezza dall’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, sono le elezioni e il consolidamento del cessate il fuoco. Tutti d’accordo, sulla carta. Poi però cominciano i distinguo, perché c’è un altro elemento, cruciale quanto controverso, collegato a quegli obiettivi: il ritiro di tutte le truppe e dei mercenari stranieri presenti in Libia. Il dito è puntato contro Turchia e Russia, come noto radicate sul territorio libico con forze consistenti – ventimila combattenti, si stima - entrambe poco dispos...
Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.