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E' ufficiale: sarà hard Brexit. Tutti i problemi in arrivo

Il discorso anticipato già in mattinata non prometteva nessuna view accomodante. Ma così non è stato. Theresa May, primo ministro inglese arrivato al governo dopo le dimissioni di David Cameron in seguito proprio alla vittoria inaspettata dei separatisti, ha deciso per una divisione netta e totale tra Londra e l’Europa ma senza esasperazione dei toni. A confermarlo, oltre al discorso della May appena conclusosi e tenuto a Westmister, anche Phillip Hammond cancelliere dello scacchiere: Londra dirà addio non solo all'Ue ma anche al mercato unico.

Global Britain

In arrivo, dunque, quella che la stessa May ha definito una Global Britain, in grado di fare accordi separati con i membri Ue e che potrebbe presto accogliere tra i suoi più fidati sostenitori, il nuovo presidente Usa, Donald Trump che non più tardi di 48 ore fa, andando in direzione diametralmente opposta al suo predecessore Barack Obama (e non sarebbe l’unica occasione in cui i due hanno dimostrato view antitetiche), ne ha elogiato la scelta indipendentista, assicurando il suo sostegno commerciale. Il che farebbe presupporre che, almeno da questo lato dell’oceano, un appoggio già ci sarebbe. Ma le prospettive di un’alleanza anglo statunitense non sono state sufficienti a reggere una sterlina che ieri è precipitata a 1,20 sul dollaro, il dato peggiore dal maggio del 1985 eccezion fatta per il flash crash di ottobre 2016. il cambio di rotta è arrivato poco fa con una sterlina che si attesta a 1,22 in fase di costante apprezzamento.

Anche se non sono state date indicazioni tecniche precise restano chiare quelle di base: niente più contribuzioni annuali, autonomia legislativa e tariffaria, controllo delle frontiere e dei flussi di arrivo, siano essi turistici, lavorativi o di migranti.

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Alla base di un’economia fondamentalmente solida, resta comunque anche la paura di venti contrari, come sottolineato dal numero un della Bank of England Mark Carney che si è trovato a dover gestire l’andamento di un pound debole che ha facilitato il rialzo dell’inflazione (+1,6% contro previsioni a +1,4%) e che potrebbe portare a una nuova stretta sui tassi per zavorrare la divisa.

Il dossier immigrazione

La volontà della hard Brexit è stata fomentata anche dalla voglia di indipendenza assoluta nel gestire il problema dei flussi migratori e di poter chiudere, aprire, controllare le frontiere a proprio piacimento. A spaventare, infatti, sarebbero stati i numeri delle previsioni sull’arrivo di migranti per i prossimi 25 anni: 12 milioni di persone secondo i dati del Migration Watch. Troppi e soprattutto con l’obbligo di una quota d’accoglienza che per i paesi Ue non dovrebbe scendere sotto le 155 mila unità, anche in nome delle norme Ue sulla libera circolazione. Fuori dall’Ue, Londra non sarebbe più obbligata a rispettare alcun limite.

Eppure non sono pochi i problemi che si aprono con la questione dell’hard Brexit sebbene molti di questi interrogativi sarebbero già nati nel momento in cui il risultato del divorzio è stato reso ufficiale.

La questione parlamentare

In realtà la questione parlamentare sarebbe quella che potrebbe risolversi prima degli altri: il responso, infatti, dipende dall’Alta Corte inglese che dovrà pronunciarsi entro gennaio sulla royal prerogative, in altre parole se il diritto e il potere di attivare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello per intenderci, che regola l’uscita di un membro dall’Unione, è nelle mani del premier Theresa May oppure del Parlamento. Stando alla prima decisione del tribunale inglese sarebbe proprio quest’ultimo ad arrogarsi la prerogativa, il che ha fatto scattare il ricorso da parte dell’esecutivo. I tempi sembrano essere piuttosto contingentati visto che il 31 marzo 2017, scade il termine per notificare al Consiglio europeo il piano con relativi passaggi. Da questo punto in poi il resto sono solo congetture. Prima di tutto perchè la Brexit è un caso unico che farebbe eventualmente da apripista anche per altri “fuggiaschi” (da ricordare che il 2017 è anno di elezioni in tutta Europa, Continente sul quale soffia un discreto vento populista), in secondo luogo perchè le tempistiche stesse per la chiusura dei vari accordi sembrano essere difficilmente quantificabili.

I tempi e le modalità

Michael Barnier, capo negoziatore Brexit dell’Ue, parla di una deadline al 30 settembre 2018, mentre la May chiede come scadenza il 31 marzo 2019. Successivamente la macchina burocratica dell’Europa pretenderà che i nuovi accordi siano ratificati dai singoli parlamenti nazionali. Incluso quello inglese il quale, da parte sua, si trova a dover gestire i malumori interni dei rappresentanti laburisti (la May è del partito Conservatore) che accusano la May di essere troppo autoritaria. In realtà anche i laburisti dovranno riuscire in un’impresa quasi disperata: stando ai sondaggi (per quanto possano essere affidabili visto l’ironico flop registrato proprio in occasione del referendum inglese) il partito avversario del primo ministro inglese, non va oltre il 25% dei consensi. Il problema sarà riuscire a ritrovare un’identità forte e che possa risanare le divisioni interne di chi accusa il leader Labour Jeremy Corbyn di aver tradito la scelta europeista del partito con una campagna troppo debole durante il referendum, una spinta, secondo molti, che ha favorito il fronte dei separatisti, in particolare dei rappresentanti Ukip di Nigel Farage, altro dimissionario del post Brexit (ma che, pur essendo euroscettico non ha abbandonato la carica - e lo stipendio- da europarlamentare).

Senza contare che, tra i tanti malumori, restano anche quelli della Scozia, pronta a chiedere un nuovo referendum: le basi che a suo tempo, a settembre del 2014, convinsero Edimburgo a restare legata a Londra, e cioè la possibilità di restare all’interno dell’Europa, sono venute meno.

Un'altra sorpresa in arrivo?

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