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Veto o non veto? L’Italia di fronte al Fiscal compact

Il fiscal compact è un accordo intergovernativo firmato al culmine della crisi dell’euro. Mettere il veto alla sua integrazione nei trattati può essere utile all’interno di una contrattazione sulla revisione delle regole che governano l’area monetaria.

Perché c’è il Fiscal compact

Il dibattito politico italiano sui temi economici in questo inizio di campagna elettorale sembra avere poco a vedere con la realtà. Può darsi che sia l’effetto del proporzionale; tanto non vincerà nessuno e quindi nessuno verrà ritenuto responsabile delle promesse fatte e non rispettate. Ma è un gioco pericoloso; magari qualcuno all’estero, a cominciare dagli investitori, ci prende sul serio e allora potrebbero esser dolori per le nostre finanze. Tra le varie proposte fantasiose di cui si sente parlare, l’ultima trovata è la questione del Fiscal compact, che improvvisamente tutti gli esponenti politici, a cominciare dal segretario del Pd, dicono di voler rivedere.

Qui si mescolano problemi veri e problemi immaginari. Parliamo dei primi. Il Fiscal compact è un accordo intergovernativo tra i paesi che hanno adottato la moneta unica (accolto anche da qualche paese che non lo ha ancora fatto), firmato nel bel mezzo della crisi dell’euro, che impone restrizioni sulle finanze pubbliche più cogenti di quelle precedenti (riassumibili nel famoso limite del 3 per cento del disavanzo pubblico), inclusa l’introduzione di regole sul bilancio in pareggio in Costituzione. L’Italia l’ha adottato con la riforma costituzionale dell’art. 81 e altri articoli collegati (entrata in vigore nel 2014) e con la legge rafforzata 243/2012. Si tratta in sostanza di un accordo politico: l’Europa del Nord ha accettato che la Banca centrale europea potesse svolgere il suo ruolo di prestatore di ultima istanza (non ovvio dai trattati), in cambio della promessa dei paesi dell’Europa del Sud di controllare in modo più sistematico le proprie finanze pubbliche e in particolare l’evoluzione del debito. È grazie a questo accordo che Mario Draghi ha potuto pronunciare il suo famoso discorso sul “whatever it takes” che nel 2012 ha spento la speculazione finanziaria sull’euro, che nel nostro caso, per esempio, aveva portato lo spread sui titoli tedeschi a superare i 500 punti.

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Siccome si tratta di un accordo intergovernativo, ma che usa istituzioni europee sovranazionali (come la corte di giustizia) per la sua attuazione, si pone il problema giuridico della sua integrazione nei trattati, che infatti era stata prevista entro cinque anni dall’entrata in vigore dell’accordo (il 1° gennaio 2013). Per cambiare i trattati europei ci vuole l’unanimità e dunque l’Italia, o qualunque altro paese, se vuole, può imporre il veto. Ma in realtà buona parte di quanto previsto dal fiscal compact è già stato adottato (con il voto favorevole dell’Italia) dalle varie istituzioni europee in numerosi passaggi legislativi ed è ora parte integrante dei Patti di stabilità e crescita, cioè del meccanismo di sorveglianza della Commissione sulle finanze pubbliche dei paesi dell’euro. Mettere o non mettere il veto sulla inclusione del fiscal compact nei trattati non cambierebbe di una virgola queste disposizioni; sarebbe in sostanza solo un atto politico.

La posizione dell’Italia

Sull’opportunità o meno di porre il veto si può discutere. Non c’è dubbio – ed è ormai ampiamente riconosciuto perfino dalle istituzioni comunitarie – che la governance economica dell’area dell’euro sia incompleta. I patti di stabilità e crescita vincolano la spesa dei singoli paesi, ma non c’è alcuna istituzione (un bilancio federale basato su una capacità fiscale condivisa) che consenta di sostenere la domanda aggregata anche con politiche fiscali espansive quando ve ne fosse bisogno. E questo è un problema serio. Lo si è visto durante la crisi del 2012-14, quando tutti i paesi, compresi quelli che non ne avevano bisogno, si sono messi a tagliare simultaneamente la spesa e ad aumentare le imposte per rispettare i patti europei, aggravando così una crisi economica in corso (per via delle ricadute tra i paesi). Lo si è visto anche negli anni più recenti, quando la politica monetaria, vincolata dal limite dei tassi di interesse non negativi, ha incontrato sempre più difficoltà a sostenere il livello dei prezzi e di qui la crescita economica.

Mettere il veto allo scopo di riaprire una discussione sulla governance dell’area dell’euro può dunque essere una mossa politica all’interno di un processo di contrattazione con gli altri paesi. Oltretutto, dopo l’elezione di Emmanuel Macron in Francia, c’è adesso una chiara finestra di opportunità per introdurre alcune modifiche. Le proposte sul ministro del tesoro per l’area euro, le discussioni sulla necessità di introdurre una capacità fiscale europea, il dibattito sui safe bonds, riassunte in un lavoro recente della Commissione vanno tutte in questa direzione. Ovviamente, richiedono anche un dibattito sulla governance politica, perché un ministro delle finanze dell’area euro non può logicamente rispondere solo ai paesi membri, ma anche a organismi sovranazionali, come il parlamento europeo, magari limitato solo ai rappresentanti dei paesi dell’euro. È importante che l’Italia partecipi a questi tavoli; ed è una questione di opportunità politica decidere se il veto possa essere uno strumento negoziale utile a questo fine.

Di Massimo Bordignon

Massimo Bordignon è attualmente membro dell’European Fiscal Board. Le opinioni espresse in questo articolo sono tuttavia esclusivamente personali e non sono in alcun modo attribuibili all’istituto di appartenenza.

Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online