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Lavoro, il prossimo colloquio potrebbe farvelo un computer

Nei colloqui di lavoro dell’immediato futuro, invece di un responsabile delle risorse umane o di uno psicologo, avremo di fronte un computer? Da decenni le aziende utilizzano nei test di selezione quiz e quesiti di logica per valutare i candidati. In passato il Q.I. ha avuto i suoi momenti di gloria ma da qualche tempo il giudizio è passato alla workforce science: come in un romanzo di Ray Bradbury, Isaac Asimov o Arthur C. Clarke sarà la severità di un computer l’ostacolo da scavalcare per raggiungere l’agognato posto di lavoro?

Negli Stati Uniti si sta affermando sempre di più la workforce science, una disciplina che si concentra sulla determinazione empirica della qualità della forza lavoro e sull’impatto che può avere la componente umana del proprio business.

In alternativa alle logiche individuali del passato, basate sulla valutazione del singolo, la workforce science propone un’analisi di più ampio respiro che scandaglia le dinamiche delle forza lavoro all’interno delle organizzazioni, i flussi dei professionisti in entrata e in uscita e il modo stesso in cui le aziende favoriscono queste dinamiche con la selezione, il reclutamento, la formazione, lo sviluppo della carriera e della leadership. La workforce science fornisce gli strumenti per monitorare la qualità e l’efficacia della gestione del capitale umano.
 
Matematica o filosofia? Scienza applicata o scienza umana? Qualcuno potrebbe obiettare che non vi è nulla di nuovo, che un secolo fa Frederick Winslow Taylor già proponeva la cronoanalisi dei processi produttivi e che per decenni eserciti di psicologi hanno monopolizzato le assunzioni attraverso i test d’intelligenza.

Oggi sono gli strumenti digitali a proporre nuove strade nella valutazione, nel reclutamento e nella gestione delle risorse umane. Le aziende hanno – attraverso Internet, i call center e appositi software - miniere di dati con i quali valutare l’efficienza delle loro risorse umane: dalla soddisfazione dei clienti ai chilometri percorsi, dalle domande di brevetto alle righe di codice scritte dai programmatori. Certo è una visione fredda, numerica che non lascia molto spazio alla fantasia e alla creatività che sono per loro natura una negazione o un superamento delle leggi, ma la workforce science è comunque un metodo con il quale bisognerà fare i conti, specialmente con il perdurare di una crisi che costringe le aziende a non accontentarsi dell’efficienza e a cercare l’efficacia.

La “scienza della forza lavoro” si basa su dati osservazionali e non su dati sperimentali: se da una parte questo aspetto consente di raggiungere un campione molto ampio, dall’altra parte la mancanza di parametri sperimentali – in un contesto scientifico che perpetua il metodo cartesiano – rischia di fornire soltanto una visione superficiale e parziale dei fenomeni comportamentali.

Ma forse è soltanto questione di tempo: quando le misurazioni e le sperimentazioni in grado di definire costanti e variabili dell’attività lavorativa verranno convogliate nelle macchine in grado di elaborare parametri per un’efficace organizzazione aziendale saremo veramente a un passo dall’HAL 9000 di 2001 Odissea nello Spazio. Ma ci saranno mai macchine “incapaci di commettere errori”, specialmente quando si tratterà di misurare un “dato” così volatile e incommensurabile come il talento?