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Reshoring: le aziende italiane che rilocalizzano

Erano andati via per sfruttare i vantaggi di una fiscalizzazione e un costo del lavoro favorevoli rispetto a quelli italiani, ma ora molti imprenditori stanno tornando indietro a causa dell’aumento delle spese di trasporto e della manodopera estera, ma soprattutto perché un vero “made in Italy” rappresenta un sinonimo di qualità e garanzia da spendere sui mercati globali.

Cina, Corea, Romania, Repubblica Ceca hanno smesso di essere i “paradisi” del passato. I volumi non sono ancora simili a quelli del reshoring statunitense, ma la rilocalizzazione è cominciata anche in Italia e sono almeno un centinaio le aziende che sono tornate sui loro passi.

Molte aziende attendono con ansia l’approvazione in sede europea dell’articolo 7 del regolamento comunitario sulla sicurezza dei prodotti destinati ai consumatori che estenderebbe la tracciabilità a tutte le merci commercializzate e non solo al settore alimentare, come avviene attualmente. Uno dei settori che si gioverebbe maggiormente di questa rivoluzione sarebbe il settore tessile: l’abbigliamento italiano ha pagato un tributo molto alto alla concorrenza insostenibile dell’oriente e la rilocalizzazione di questo settore potrebbe essere importante per una ripresa della produttività.

Ecco alcune delle principali aziende che hanno scelto di tornare a casa.

Tonno Asdomar. Tutta la produzione di tonno è stata spostata dal Portogallo a Olbia, dove nel 2008 l’azienda ha rilevato impianti e macchinari di Palmera e sono stati investiti 25 milioni di euro per costruire un nuovo stabilimento.

GPP (Global Garden Products). L’azienda di Castelfranco Veneto, 450 milioni di euro di fatturato, aveva delocalizzato gli impianti in Slovacchia e in Cina per poi spostarsi in Svezia, ma, negli ultimi due anni, è tornata sui suoi passi concentrando ricerca e progettazione in Italia.  

Felm. La famiglia Colombo produce motori elettrici e fattura 20 milioni di euro l’anno. Fra le prime aziende a scommettere sulla delocalizzazione, a metà degli anni Ottanta, è stata anche fra le prime a tornare a casa per agevolare la personalizzazione dei motori che richiedono progettazione e controlli di alta qualità, quindi il braccio e la mente non troppo lontani l’uno dall’altra.

Gta Moda. Da oltre 50 anni produttrice di pantaloni classici e sportivi, l’azienda ha deciso di trasferire la manifattura dalla Romania all’Italia.

Furla. Il marchio di pelletteria bolognese negli ultimi tra anni ha prodotto 300mila borse in più in Italia.

Artsana. Dalla Chicco alla Control, dall’abbigliamento Prénatal ai deodoranti Lycia, Artsana produce ricavi per 1,2 miliardi di euro l’anno e il suo ad Claudio De Conto ha deciso di rilocalizzare la produzione abbandonando la produzione indiana, cinese e coreana.

Beghelli. L’azienda produttrice di strumenti e accessori elettrici ed elettronici ha avviato nel 2013 un percorso di disinvestimento dagli stabilimenti di Cina e Repubblica Ceca.

Space 2000. Da 25 anni in Cina e delocalizzata anche in Bangladesh, la Space 2000 di Manuel Musso ha deciso di tornare a produrre magliette e pantaloni in Italia.

Fiamm. Leader europeo delle batterie per auto ha rilocalizzato ad Avezzano la propria produzione chiudendo lo stabilimento che aveva in Repubblica Ceca fino a cinque anni fa.

Aku. L’azienda veneta di scarponi da montagna aveva delocalizzato il 90% della produzione da Montebelluna a Cluj, ora è tornata a realizzare “in casa” il 30% della produzione.

Secondo i dati di una ricerca curata dal Back-reshoring Research Group del consorzio universitario Uni-Club More, il 20% delle rilocalizzazioni italiane avviene proprio nel settore dell’abbigliamento. Poi, nell’abbigliamento come in altri settori, c’è chi dall’Italia non è mai andato via. Ma questa è un’altra storia.