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Bond high yield, è giunta l’ora di vendere?

E’ stato finora l’anno dei bond high yield. Con volumi di acquisto costantemente in crescita sia per le singole emissioni sia e soprattutto per gli specifici Etf. Da inizio ottobre l’aria però è cambiata e il consiglio più diffuso risulta chiaro: vendere prima che sia troppo tardi. Vari i motivi che portano a un simile suggerimento, diffuso anche fra i leader del risparmio gestito:

  1. un fattore di rischio viene inevitabilmente dal tanto atteso rialzo dei tassi da parte della Fed. Il mercato ne prevede uno per fine anno e due nel 2017. Non si tratta di un’inversione violenta nella politica monetaria d’oltre Oceano ma pur sempre di una svolta destinata a ripercuotersi con un effetto leva sul credito “high yield”.

  2. il tasso dei default ha cominciato a crescere. Si è ormai al 4%, valore oltre il quale potrebbe iniziare una fase di incremento fino a percentuali del 6-7%. Inoltre il trend trova riscontro anche in Europa, il che è abbastanza anomalo.

  3. gli “yield” sono scesi troppo. L’iShares iBoxx $ High-Yield Corporate Bond ha toccato il 5,7%, in progresso del 7,7% da inizio anno, con un rapporto rischio/rendimento che comincia a essere poco attraente. Se il decennale Usa tornasse verso il 2%, contro l’1,8% di venerdì, si realizzerebbe uno “switch” dagli “high yield” verso i Treasuries.

La vera preoccupazione è un’altra

Il motivo di maggiore incertezza è però questo: riguarda la liquidità di tali obbligazioni, paragonata a una specie di collo di bottiglia, dal quale si salverà solo chi uscirà in anticipo. Fondi, Etf e singoli investitori hanno acquistato “high yield” a manetta, essendo l’unica alternativa ancora praticabile nell’ambito obbligazionario. Ne hanno raccolto di ogni tipo e in tutte le diverse valute. La rincorsa alle vendite potrebbe determinare un’impossibilità del mercato a sostenere i flussi in uscita, con “spread” in forte crescita e liquidità in netto calo.

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Storie complesse

Rendimenti dell’ordine dei 370 punti base sugli equivalenti titoli di Stato per gli “high yield” europei e di 550 punti base per gli statunitensi appaiono oggi assolutamente modesti, quando poi ci si rende conto che il contesto include storie complesse di ristrutturazione, quali quelle della spagnola Abengoa (Londra: 0NUI.L - notizie) e di non pochi emittenti minori tedeschi e inglesi. Il livello di nervosismo sta salendo, perché è vero che non si tratta di default veri e propri ma di abili espedienti in cui l’investitore è la parte non solo debole ma di fatto indifendibile in processi di salvataggio difficili da decifrare.

E adesso che si fa?

Se si è esposti su singoli bond, in particolare statunitensi (il cui taglio minimo è solitamente di 1.000 o 2.000 Usd) è consigliabile un alleggerimento dalle posizioni con scadenze più lunghe, che di solito arrivano al massimo al 2024. Tutto quanto va oltre il 2018 subirà impatti consistenti a livello di quotazioni dal rialzo dei tassi Fed. Se si è invece collocati su Etf occorre non solo verificare con costanza l’andamento dei prezzi, mediamente stabili dalla fine dell’estate, ma soprattutto gli “spread” denaro/lettera. In presenza di possibili allargamenti scatta un segnale di allarme, da valutare con attenzione.

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