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Come uscire dalla crisi italiana ed europea

Salvatore Biasco, Regole, Stato, uguaglianza. La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, LUISS, Roma, 2016.

Il libro è suddiviso in tre parti con due succosi capitoli ciascuna. I capitoli sono tutti accompagnati da letture interessanti che, in alcuni casi, riprendono e valutano la letteratura sull’argomento discusso prima. Il primo capitolo tratta del rapporto tra capitalismo e democrazia. Il secondo parla del paradigma economico dominante tra potere e dottrina. Il terzo e quarto trattano la crisi della sinistra in Europa e in Italia, come dire, travolte e/o confuse dallo tsumani neo-liberale. La terza parte tratta di identità e orizzonti programmatici, ossia, quale dovrebbe essere l’identità della sinistra italiana ed europea e quale la sua impostazione programmatica.

Il libro è tributario del precedente dello stesso Autore sul “capitalismo da ripensare” 2012 e anche dell’altro intitolato “per una sinistra pensante” che si occupa più da vicino della crisi identitaria del Partito democratico. Il punto centrale dell’analisi è il rapporto tra capitalismo e democrazia. Un rapporto ineludibile ma anche conflittuale, che ha bisogno di una efficiente ed efficace regolazione. Già nella seconda metà dell’ottocento il rapporto tra capitalisti e lavoratori era sensibilmente cambiato con l’affermarsi delle Leghe e dei sindacati. Nel (Londra: 0E4Q.L - notizie) seconda metà del novecento si sviluppa il c.d. compromesso socialdemocratico per cui si prende atto della natura cooperativa del rapporto di lavoro e si riconoscono ai lavoratori diritti fondamentali, civili e sociali, diritti di partecipazione al processo decisionale (vedi il suffragio universale per le donne, la legge sulla cogestione in Germania, vedi lo Statuto dei lavoratori in Italia 1970). A p. 23, 25 Biasco parla di rottura dell’equilibrio democratico e di deterioramento della qualità della democrazia. Sono d’accordo. La globalizzazione ha portato con se un processo di verticalizzazione dei processi decisionali e, quindi, una deriva autoritaria e tecnocratica per via dell’inadeguatezza degli assetti politico-istituzionali non solo a livello europeo ma, molto peggio, a livello mondiale. Si cerca dilettantisticamente di rimediare con gruppi informali come i G-7, i G-8, i G-10, il G-20 ma i risultati finora raggiunti in termini di coordinamento sono scarsi e largamente insufficienti. Non riescono a coprire il vuoto di potere lasciato dal Consiglio di Sicurezza e dalle Agenzie specializzate delle Nazioni Unite. Se la globalizzazione dei mercati, con la liberalizzazione degli scambi, la libertà dei movimenti di capitale, la concorrenza deleteria in materia fiscale, il social dumping, la finanza rapace che cerca solo facili profitti e quant’altro è chiaro che l’equilibrio si raggiunge a livelli più bassi per i lavoratori. Si spiega così la mercificazione del lavoro, l’impoverimento delle classi medie e l’aumento della concentrazione del reddito e della ricchezza anche nei paesi più ricchi. E tuttavia le distanze tra i paesi ricchi e quelli poveri si sono ridotte nonostante che gli aiuti ai PVS non siano aumentati anzi si siano ridotti. Limitatamente a questo aspetto, si può dire che la liberalizzazione degli scambi ha funzionato anche se non abbastanza. Per governare un sistema complesso e instabile come quello determinato dalla globalizzazione è necessaria la fiducia collettiva a livello mondiale. Sappiamo che questa manca a livello regionale ampio e, non di rado, anche all’interno di vari Stati nazionali. Dice Rosanvallon 2012 che viviamo nella era della sfiducia. Quindi nel parlare di fiducia collettiva a livello mondiale, siamo all’utopia di Altiero Spinelli e Bruno De Finetti – comunque necessaria. Anche io sono convinto che per costruire un mondo migliore serve un governo mondiale democratico. Per poterlo costruire e per farlo funzionare bene serve la fiducia tra i popoli e i governi che li rappresentano. Sfortunatamente in questa fase storica mancano i due presupposti fondamentali su cui si costruisce la fiducia e la governabilità: una forte coesione sociale e un alto livello di etica pubblica a livello globale. Come noto, circa due terzi dei membri della Nazioni Unite sono dittature più o meno soft e l’altro terzo sono democrazie di diversa qualità. Siamo alla canna del gas? No, ma non respiriamo bene. Se queste sono le condizioni precarie in cui vive la democrazia nel mondo è chiaro che il capitalismo e la finanza rapace dilagano.

Nella seconda parte del libro SB si occupa della sinistra in Europa e in Italia. Una sinistra che, a suo giudizio, ha fatto proprie le conclusioni (le ricette) e non l’intero quadro analitico neo-liberale. L’agenda di Lisbona è un programma neo-liberale affidato ai governi dei Paesi membri. L’obiettivo principale è la flessibilità del mercato del lavoro, l’occupabilità non la massima o piena occupazione. L’UE è divenuta centro irradiatore di una concezione di destra delle politiche e della società. Non viviamo in un mondo postideologico. Viviamo in un mondo permeato da una ondata ideologica potente: quello neo-liberista, quella dominata dai mercati dove prevale la logica della concorrenza, ossia, “dell’uno contro l’altro” (Honneth). La socialdemocrazia è scomparsa? No. È una visione del mondo minoritaria. C’è un deficit di elaborazione e di aggiornamento. Rispetto alle privatizzazioni che arrivano e le liberalizzazioni che non si fanno, nessuno ha il coraggio di proporre altre soluzioni. A questo ultimo riguardo, a me sembra che la UE porta avanti il discorso della partnership pubblico/privato che in Paesi come l’Italia è privatizzazione surrettizia dei servizi pubblici senza uno straccio di analisi costi-benefici e veicolo di corruzione. Leggermente sfocato mi sembra il discorso (p.135) sulla mancanza di organizzatori di sistema nel settore produttivo. È chiaro a mio giudizio che se accogli l’impostazione neo-liberista è il mercato che comunque guida. Se per l’intera economia sottoscrivi il Trattato di Maastricht e inneschi il pilota automatico con dei precisi parametri da rispettare specialmente dopo l’attuazione dell’euro non rimangono spazi di discrezionalità per le politiche economiche formalmente dal Trattato di Maastricht 1992 lasciate alla responsabilità dei governi dei Paesi membri. Il tradimento del Trattato avviene una prima volta con il Regolamento n. 1466/1997 (G. Guarino, 2014), alias, Patto di stabilità e crescita che in realtà si occupa solo di stabilizzazione e lascia cadere il volet della crescita. E la storia si ripete 15 anni dopo al momento dell’approvazione del Fiscal Compact quando Monti aveva strappato alla Merkel la necessità di elaborare un Patto per la crescita. Se ne discute nelle riservate stanze della Commissione per circa due anni ma poi non se ne fa niente e nessuno protesta. PQM motivi non capisco bene la critica alla politica di decentramento in Italia. Se poi, in questo decennio, anche il vero governo dell’economia è stato centralizzato a Bruxelles, è inutile prendersela con la debolezza del nostro governo centrale. Bisognerebbe essere più chiari su questo. Nell’autunno 2010 il governo Berlusconi inciampa (va in minoranza) nell’approvazione del Rendiconto generale della Corte dei Conti. Mai accaduto prima. Viene salvato dal Presidente della Repubblica che gli dà un mese di tempo per rimediare. Nel 2011 Berlusconi si scredita ulteriormente e viene sostituito in via extraparlamentare da Napolitano che imprime una forte torsione presidenzialista al sistema istituzionale. Il Presidente Monti, per vocazione e per evitare il commissariamento del governo, approva senza alcuna resistenza tutte le misure dettate dal Consiglio europeo di puro stampo offertista e le fa approvare dalla sua maggioranza parlamentare di cui fa parte anche il PD.

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Il problema era e rimane quello di agire in coerenza con il processo di integrazione economica. Ma quale processo? Quello attuale che rischia di portarci alla disgregazione oppure quello storico-ideale, in buona sostanza, ripreso seppure parzialmente, anche dalle due versioni del Rapporto dei cinque presidenti che propongono l’Unione fiscale e quella politica? Ma sappiamo tutti che questa ipotesi incontra l’opposizione della maggioranza dei governi che siedono nel Consiglio europeo, guidati dalla Germania. Ma allora sono la Merkel o Schauble che si oppongono alla Federazione europea? No sono gli altri paesi guidati dalla Francia che non la vogliono perché sono in preda a rigurgiti nazionalistici alimentati dai fallimenti parziali del progetto. Ricordo che c’è un documento del 1994 proprio del ministro delle finanze tedesco che contiene un progetto avanzato di maggiore integrazione verso una vera Unione federale che non ha avuto successo tra gli altri paesi membri. E la Germania è l’unica repubblica federale all’interno dell’Unione.

La riforma dei Trattati non è tuttora all’ordine del giorno ma sono disponibili altre opzioni che potrebbero essere messe in opera a breve termine sempre che si trovi l’accordo politico per farlo. Tornerò sul punto dopo.

Venendo brevemente alla terza parte: “Identità e orizzonti programmatici”, concordo su molte delle osservazioni e proposte di Biasco. Sull’identità della sinistra italiana ed europea il discorso sarebbe molto complicato se solo si volesse considerare la storia della sinistra nei principali paesi europei. In sintesi in Italia non c’è stata mai nell’era repubblicana una sinistra unitaria, coesa e maggioritaria, non c’è tuttora e anche la prospettiva no Autore: Enzo Russo Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online