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Petrolio: nessun accordo a Doha. Gli impatti attesi sulle Borse

Di (KSE: 003160.KS - notizie) seguito riportiamo l'intervista realizzata a Stefano Bagnoli, economista e analista fondamentale, capo Ufficio Studi per Alpha Value Mangement e advisor di un fondo di investimento azionario absolute return.

Il vertice dell'Opec tenutosi ieri a Doha si è concluso con un nulla di fatto. Quali riflessioni si possono fare su questo evento? Si aspetta un simile esito?

Il 17 aprile 2016 si sono ritrovati a Doha, capitale del Qatar, i rappresentanti di 16 paesi produttori di petrolio OPEC e non OPEC, con l'obiettivo di trovare soluzioni al contesto attuale del mercato del petrolio, con offerta in aumento a fronte di una domanda stabile o in calo, e dunque con prezzi del barile a livelli storicamente molto bassi.

Il vertice si è chiuso con un nulla di fatto, ovvero senza nessun accordo sul congelamento della produzione di cui da tempo si parlava e che era vista come unica possibile misura per frenare il declino dei prezzi.
Mohammed Saleh Abdulla Al Sada, ministro del Petrolio del Qatar, ha dichiarato alla stampa che il gruppo "ha bisogno di più tempo" per delineare un accordo, visti i "migliorati fondamentali".

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I paesi presenti erano titolari, in aggregato, di quasi metà della produzione petrolifera mondiale, che è di circa 80 milioni di barili al giorno (mbg). La sola ipotesi di un accordo per congelare le estrazioni sui livelli di gennaio, ventilata per mesi dai media e sui mercati, era stata sufficiente a far risalire i prezzi di quasi il 60% rispetto ai minimi di gennaio, quando per la prima volta da 13 anni erano scese sotto 30 dollari al barile.

Per inciso, i livelli produttivi in gennaio sono stati altissimi (e in seguito sono ulteriormente cresciuti in alcuni paesi, raggiungendo livelli record in Russia e Iraq). Nei due mesi trascorsi dall'intesa iniziale tra Arabia Saudita, Russia, Qatar e Venezuela, annunciata il 16 febbraio, il WTI crude oil è passato dai 26,21$ dell'11 febbraio ai 42,17 del 12 aprile, mentre il Brent si è apprezzato dai 27,88 del 20 gennaio ai 44,69 del 12 aprile. Chiusure di venerdì 15 aprile: WTI crude oil 40,36$, Brent 43,10$.

Cosa ha impedito a suo avviso il raggiungimento di un accordo?

Un taglio di produzione coordinato era impossibile, e si sapeva, vista la differenza delle posizioni in campo, a partire dall'Iran, ieri assente dell'ultimo minuto, a cui si chiede di congelare la produzione appena ripartita dopo anni di sanzioni e isolamento.
L’Iran fa i conti con le sanzioni economiche internazionali dal 1979, quando furono introdotte dopo la rivoluzione khomeinista, per poi essere rinnovate nei decenni successivi, sulla scia delle violazioni dei diritti umani e della volontà di sviluppare tecnologie per gli ordigni nucleari.

L'accordo sulla revoca delle sanzioni è stato fatto il 14 luglio 2015 con il "Gruppo 5+1": Stati Uniti, Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna (i Paesi che hanno diritto di veto all’Onu) più la Germania.
L'Iran dunque è rientrato da poco nel mercato del petrolio dopo decenni di isolamento, che gli hanno impedito di produrre e di esportare petrolio, perdendo così enormi quote di mercato. Era dunque prevedibile e normale che dopo la fine delle sanzioni l'Iran opponesse una forte resistenza all'idea di un blocco dell'output, nel tentativo di recuperare quote del mercato globale.
E infatti il ministro Bijan Zanganeh aveva già ribadito più volte di non aver alcuna intenzione di mettere un tetto alla produzione.

Viceversa l'Arabia Saudita sostiene da tempo che non limiterà la sua produzione, se non a seguito di un accordo fra tutti i produttori, con specifico riferimento all'Iran. Qualche settimana fa il principe Mohammad bin Salman, una delle figure più potenti in Arabia Saudita, aveva smentito che Riyadh fosse disponibile a congelare la produzione senza che l'Iran facesse altrettanto, minacciando anzi un aumento della produzione in caso contrario.

Di fatto è stato questo il fulcro della disputa di Doha (e precedente a Doha), che ha impedito un accordo. Eppure le trattative degli ultimi mesi, insieme a segnali tangibili che la produzione di shale oil negli Usa sta calando, erano riuscite a migliorare sensibilmente l'umore degli operatori, spingendo i fondi di investimento a spostarsi su posizioni rialziste. E non c'è dubbio che proprio queste trattative siano state il driver dei prezzi negli ultimi mesi, alternando momenti di euforia (e rimbalzi dei prezzi) ad altri di delusione (e conseguenti ribassi).

A Doha, oltre all'Iran, dei 13 paesi membri dell'OPEC mancava anche la Libia, lacerata dalla guerra civile e con una produzione di greggio ridotta a meno di 400mila barili al giorno, un quarto delle sue potenzialità. Mancavano poi (tra i produttori non Opec) la Norvegia e il Messico, che in passato avevano tagliato la produzione insieme all'Opec: la prima non ha inviato nessun rappresentante, il secondo - che sta cercando partner stranieri per risollevare un'industria petrolifera in forte crisi - è andato solo in veste di osservatore. Altri paesi assenti, ma la circostanza non sorprende: gli Stati Uniti, il Canada e la Cina, che con oltre 4,5 milioni di barili al giorno, tutti destinati al consumo interno, è il quarto produttore al mondo.

Quale sarà a suo avviso l'impatto legato al nulla di fatto del vertice a Doha?

Il mancato accordo di Doha, nonostante la reazione positiva delle Borse nella seduta odierna, avrà un impatto negativo sui mercati azionari.

Come funziona in questa fase la correlazione tra prezzo del petrolio e mercati azionari?

Da qualche tempo si è instaurata una correlazione diretta oil/mercati azionari. Ciò accade da quando le Banche centrali ci raccontano che la bassa inflazione è un problema: i rialzi del prezzo del petrolio, con il loro impatto rialzista sull'inflazione, sono visti come positivi, e dunque si associano spesso a rialzi sui mercati azionari.

Viceversa i ribassi del petrolio con il loro impatto ribassista sull'inflazione, sono visti come negativi, e dunque si associano spesso a ribassi sui mercati azionari.

Inoltre, aspetto secondario ma non trascurabile, il prezzo del barile impatta sui titoli del settore petrolifero, che hanno un forte peso in molti listini, compreso quello italiano. Un prezzo basso e/o in calo del barile impatta negativamente, viceversa un prezzo alto e/o in aumento impatta positivamente.

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