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Sale lo spread tra USA ed Europa. Non a caso

Se confrontiamo i valori dei principali indici azionari di venerdì sera con quelli di una settimana prima osserviamo che le divergenze di comportamento emerse poco dopo la vittoria di Trump si irrobustiscono ulteriormente.

SP500 ha chiuso con un +1,44% la sua terza settimana di crescita dopo il 4 novembre, confermando una notevole spinta rialzista, che gli ha permesso di salire di oltre 6 punti percentuali in questo rally presidenziale trisettimanale.

L’indice globale dell’Eurozona Eurostoxx50 ha ancora una volta faticato non poco a tenere il passo americano, senza riuscirci. Infatti le performance europee negli analoghi intervalli temporali sono state di +0,9% in settimana e +3,2% nell’andamento trisettimanale, che non può essere classificato certo come un rally.

Tutto ciò è avvenuto nonostante la settimana passata la corsa americana sia stata frenata da un orario di contrattazioni ridotto dalla festività di giovedì e dal mezzo ponte di venerdì, e quella delle borse europee favorita, dopo la vittoria di Trump, dal super dollaro, che ha guadagnato nei confronti della moneta unica europea quasi il 5%, passando con il cambio EUR/USD da oltre 1,11 a meno di 1,06. Se convertiamo tutto in dollari, per eliminare le differenze di cambio, la sovraperformance della borsa americana rispetto a quelle europee è stata di oltre 8 punti percentuali in tre settimane: una mostruosità che non può più essere spiegata con la semplice ed eccessiva, tanto quanto momentanea, infatuazione degli americani per il miliardario dai capelli color pannocchia. Il quale peraltro, pare aver capito che meno parla, più cresce la sua popolarità e si alimentano le aspettative.

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Quel che ai mercati pare ormai piuttosto chiaro è che la rivoluzione elettorale USA divaricherà ulteriormente le già differenti politiche economiche che si possono ipotizzare tra le due sponde dell’atlantico.

In un certo senso le parole dei presidenti delle due principali banche centrali del mondo, Yellen e Draghi, lo hanno confermato, almeno dal lato monetario.

La Yellen, sebbene con tutta la cautela di cui è ottima maestra, ha confermato un’accelerazione della velocità della manovra di rientro verso la normalità, con lo scontatissimo rialzo dei tassi di dicembre, che sarà seguito da altri passi verso una politica più restrittiva nel 2017, ovviamente tenendo conto della gamba fiscale della politica monetaria. Ciò significa che se veramente Trump vorrà mettere in pratica almeno parte delle abbondanti e scarsamente compatibili promesse elettorali in campo economico, che si appoggiano sui due pilastri dell’aumento della spesa pubblica per rimodernare le infrastrutture USA e del taglio cospicuo delle tasse a carico di imprese e cittadini (soprattutto per i suoi elettori più ricchi), dovrebbero sorgere pressioni inflazionistiche piuttosto cospicue, che richiederanno un intervento rapido ed incisivo di drenaggio monetario. Pertanto la FED potrebbe essere costretta ad accelerare notevolmente nel cammino del rialzo dei tassi. Ovviamente questo scenario, che i mercati stanno già scontando in parte, mostrando di credere abbastanza alle promesse di Trump, poggia sulla credibilità del neo presidente, che potrebbe accorgersi, quando entrerà nella stanza dei bottoni alla Casa Bianca, che promettere la luna è più facile che catturarla, e magari potrebbe ridimensionare di molto le sue ambizioni quando dovranno passare al vaglio della sostenibilità, così come ha già fatto con la messa sotto accusa della Clinton (abolita), la costruzione del muro col Messico (rinviata) e la rimozione del programma sanitario di Obama (trasformata in semplice riforma senza fretta).

Comunque è evidente che qualcosa delle suo promesse dovrà pur essere realizzato, per cui ipotizzare che l’inflazione rialzi la testa in un futuro ormai non più così lontano, mi pare sensato, anche se forse i mercati, come è nella loro natura sempre più speculativa, hanno forse messo il carro un po’ troppo davanti ai buoi, e dovranno moderare un po’ gli entusiasmi.

Del tutto opposte paiono le intenzioni di Draghi, che si trova in Europa alle prese con politiche fiscali dei vari stati che sono infinitamente meno disposte a largheggiare nel deficit di bilancio di quanto abbia intenzione di fare Trump. Anzi, il suo interlocutore principale, che è Angela Merkel, impegnata in una lunga campagna elettorale per confermarsi, a settembre del prossimo anno, per la quarta volta alla guida della Germania (e della UE), sa che per vincere deve dimostrarsi inflessibile nella imposizione dell’austerità al ventre molle mediterraneo dell’Eurozona. Non penso perciò che sia ipotizzabile un allineamento delle politiche fiscali europee al vento “keynesiano” portato da Trump, nonostante le grida di battaglia di Renzi, che dopo il referendum vuole dare l’assalto al dogma europeo dell’austerità. Pertanto Draghi sembra intenzionato a resistere all’opposizione tedesca alla politica monetaria accomodante, fin qui attuata dalla Bce (Toronto: BCE-PRA.TO - notizie) a colpi di QE. La partita in seno al Board della BCE è molto incerta e ne capiremo l’esito probabilmente in dicembre, quando l’ultima riunione dell’anno dovrebbe comunicare l’accoglimento della proposta di Draghi di prorogare di almeno 6 mesi la scadenza, prevista a marzo 2017, del programma di acquisto di titoli obbligazionari da 60 miliardi al mese (QE). Se Draghi manterrà il controllo della BCE avremo una divaricazione piuttosto significativa delle politiche fiscali e monetarie tra le due sponde dell’Atlantico. In USA le prospettive potrebbero perciò essere di incremento della crescita e di politica monetaria progressivamente sempre più restrittiva. Al contrario, in Europa potrebbe ancora continuare il mix di bassa crescita e politica monetaria ancora molto accomodante.

Ecco perché i mercati hanno premiato il dollaro rispetto all’Euro e perché il rendimento del Treasury decennale americano è salito molto di più di quello del collega tedesco. E perché le borse USA sono schizzate al rialzo con molta più convinzione dei quelle europee.

C’è da notare che i mercati stanno scontando aspettative che solo il futuro ci potrà dire quanto poi verranno confermate dai fatti. La mia impressione personale è anche che l’opera di inserimento del futuro nei prezzi di borsa sembra aver messo decisamente il carro delle borse USA davanti ai buoi.

Si vedono eccessi rialzisti piuttosto evidenti, con indicatori di eccesso di breve in ipercomprato su livelli che, tradizionalmente, chiamano almeno una correzione momentanea.

Potrebbe avvenire proprio questa settimana, anche se l’esperienza degli ultimi rally vissuti dalle borse USA ci ha mostrato 4 settimane di rialzo consecutivo nel luglio scorso (dopo la paura Brexit) ed addirittura 5 tra febbraio e marzo di quest’anno (dopo la paura Cina).

La nostra borsa vive un momento particolare, completamente rapita dalle incertezze sul Referendum, al quale manca ormai solo una settimana. Il Ftse-Mib sta resistendo sui supporti di area 16.000, ma non ha praticamente partecipato alla festa di Trump, dato che, tra vari saliscendi nelle tre settimane di gloria delle borse USA, oggi vale appena l’1,2% in più rispetto al 4 novembre scorso.

I mercati non si azzardano a investire sul nostro paese, in attesa che la partita politica su cui Renzi sta giocando il suo futuro si concluda. Il timore è che una vittoria del NO trascini alle dimissioni il governo e riporti un periodo di grave instabilità politica.

Questa settimana dovrebbe essere ancora sull’ottovolante. Poi domenica sera arriverà un impulso direzionale. Al rialzo in caso di vittoria del SI, ma al ribasso in caso di vittoria del NO.

Autore: Pierluigi Gerbino Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online