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Domenico De Masi: "Scuola, media e famiglia hanno fallito se c'è chi non crede al Covid"

Domenico De Masi (Photo: LUIGI MISTRULLI-ANSA)
Domenico De Masi (Photo: LUIGI MISTRULLI-ANSA)

Il 55esimo rapporto del Censis sottolinea che durante questo periodo di pandemia c’è stata un’ondata di “irrazionalità” con 3 milioni di italiani (5.9%) convinti che il Covid non esiste. Per non parlare del 5,8% di chi pensa che la terra sia piatta e del 10% che non crede all’allunaggio. È abbastanza ovvio che la pandemia dia senso smarrimento. “Un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico”, spiega il Rapporto, di cui abbiamo parlato con il sociologo Domenico De Masi.

Professor De Masi, il Covid ha fatto crescere i complottisti?

L’onda di irrazionalità non è arrivata con la pandemia, c’era anche prima. La pandemia l’ha messa a nudo. Prima non c’era motivo di constatare quanti erano i terrapiattisti o i negazionisti dell’uomo sulla Luna. Questo dato però è terribile e sottolinea come le tre agenzie di acculturazione in Italia non funzionino.

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Ovvero?

Se abbiamo tre milioni di persone che credono che il covid non esiste vuole dire che le tre agenzie - famiglia, scuola e media- hanno fallito. Ma basta guardare i quiz che tutte le sere passano in tv per darsi una piccola risposta.

Nel rapporto del Censis viene evidenziato un boom della povertà.

Con una pandemia di queste dimensioni era abbastanza prevedibile. Il primo gennaio 2019 c’erano circa 5 milioni di poveri che grazie al reddito di cittadinanza entrato in vigore a marzo dello stesso anno si sono ridotti a circa 3 milioni. Con il Covid i poveri sono tornati a crescere fino a circa 6 milioni. Quindi oggi abbiamo un milione di poveri in più rispetto a inizio 2019. Insomma, senza reddito ne avremmo circa 8 milioni. E quindi questa misura di cui ancora tanto si discute, insieme al reddito di emergenza, in qualche modo ha arginato questa massa di poveri.

Emerge anche una grande insoddisfazione e di poca fiducia nel futuro. Solo il 15,2% degli italiani pensa che dopo la pandemia la propria situazione economica sarà migliore.

Alle ricerche che chiedono lo stato d’animo non credo troppo. Dopotutto è molto difficile essere ottimisti durante una pandemia e le risposte sulle sensazioni riflettono troppo spesso il mood del momento. Di sicuro se tra tre mesi la situazione pandemica si alleggerisse, le risposte sarebbero del tutto differenti. E comunque la questione cruciale resta legata al lavoro.

Si spieghi.

La disoccupazione si basa su due fattori: il progresso tecnologico e la globalizzazione che in qualche modo cospirano contro il lavoro disponibile. La società sta imparando a produrre sempre più beni e servizi senza lavoro umano. Quindi siamo davanti al paradosso per cui più aumenta la tecnologia, e aumenta in modo velocissimo, più diminuisce il lavoro per le persone. L’unica soluzione è ridurre l’orario di lavoro, come fa la Germania che davanti alle ondate di progresso tecnologico è arrivata a 32 ore settimanali. In Italia siamo sempre a 40. Un tedesco lavora 1400 ore all’anno, un italiano 1800. E lavorando 40 ore in più toglie il lavoro al figlio.

Infatti nel rapporto si indica l’importanza per gli italiani del silver welfare, con gli anziani visti come bancomat dei giovani.

Anche questo fattore si lega alla distribuzione dell’orario di lavoro. Se continuiamo a concederci lusso demenziale per cui il padre lavora dieci ore e il figlio è totalmente disoccupato, servirà sempre il nonno con la pensione a coprire le spese.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.