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L’euro, un vaso di coccio tra vasi di ferro

Nessuna sanzione nei confronti dei Paesi che nelle ultime settimane hanno favorito la discesa delle loro valute per acquisire competitività nei mercati internazionali. Il G20 di Mosca si è concluso con un nulla di fatto sul punto più caldo in discussione: un esito che, secondo alcuni analisti indipendenti, è stato ottenuto garantendo ai Paesi più preoccupati in merito (soprattutto quelli dell’Eurozona) un minor rigiro sulla questione della riduzione dei deficit pubblici, spianando la strada a un possibile allentamento del rigore delle politiche di bilancio. Sta di fatto che l’euro continua a volare, affossando di conseguenza la forza dell’export italiano, l’unica voce dell’economia nazionale finora risparmiata dalla crisi.

L’attivismo giapponese

Manovre da parte delle Banche centrali per tenere bassi i corsi delle valute sono in atto da almeno un paio di anni. Lo fa la Fed americana, con l’intento di rilanciare l’economia attraverso la strada dell’esportazioni (con l’ulteriore vantaggio di ridurre il peso reale del debito), e a cascata i benefici arrivano anche per la Cina, che nonostante un range di oscillazione, continua a mantenere lo yuan ancorato al dollaro.

La vera novità delle ultime settimane è costituita dal Giappone: reduce da una stagione ultradecennale, il Paese del Sol Levante sta provando a invertire il trend attraverso la carta della svalutazione valutaria. E lo sta facendo con una tale irruenza da preoccupare persino la Germania, che proprio al Giappone contende la leadership internazionale su molti prodotti manifatturieri.

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Balzo del 30%

Fatto sta che l’euro, pur essendo espressione di un’area da tutti definiti come “la grande ammalata dell’economia mondiale”, negli ultimi sei mesi si è apprezzato di oltre il 10% verso il dollaro e di quasi il 30% verso lo yen. Un paradosso dovuto al fatto che la Banca centrale europea, come ribadito a più riprese negli ultimi giorni dal presidente Mario Draghi, non ha il potere di influenzare i corsi valutari. Il compito affidato dai Trattati all’istituzione di Francoforte è il mantenimento entro limiti accettabili dell’inflazione. Una decisione assunta su pressioni della Germania, che teme il riproporsi di condizioni di iper-inflazione come ai tempi della Repubblica di Weimar, uno scenario che aprì le porte all’affermarsi del totalitarismo.

Problemi per l’export

Sta di fatto che questa situazione rischia di vanificare gli sforzi fatti fin qui dal Vecchio Continente per intercettare la ripresa, in quanto penalizza le esportazioni. Di contro, qualche beneficio potrebbe prodursi sui prodotti importati: il pensiero corre in primo luogo ai carburanti, anche se in questo caso la maggior parte del costo per il consumatore finale è attribuire alle tasse statali.

Una via d’uscita non si vede a breve, anche perché alle manovre delle Banche centrali sulle valute va aggiunta l’appetibilità dell’euro dovuta a interessi più alti sui depositi, dato il costo del denaro mantenuto allo 0,75% rispetto allo 0,5% della Gran Bretagna, allo 0,25% degli Usa e addirittura allo 0,1% del Giappone. In queste condizioni c’è da credere che l’appetito per l’acquisto di moneta unica resterà elevato ancora a lungo.