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Alle imprese lasciare l'Italia costerà un po' di più. Ma il freno è inefficace

Il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti (s) e il ministro del Lavoro, Andrea Orlando. ANSA/CLAUDIO PERI (Photo: ANSA)
Il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti (s) e il ministro del Lavoro, Andrea Orlando. ANSA/CLAUDIO PERI (Photo: ANSA)

La forma scelta - un emendamento alla manovra - dice già molto della portata delle norme anti delocalizzazioni scritte dal Governo. Il Pd voleva un decreto, insomma un intervento più pesante, anche per dare un segnale più forte ai sindacati, che hanno fatto proprio delle misure contro le multinazionali che chiudono e fuggono all’estero una delle ragioni dello sciopero generale. Ma la regia di palazzo Chigi, condivisa dalla Lega, ha deciso per uno strumento decisamente più morbido: i contenuti, come si legge nella bozza, sono molto lontani dall’impianto abbozzato dai dem e dai 5 stelle durante l’estate. Non ci sono maxi-sanzioni e black list, la procedura per le cessazioni allarga ma non stravolge le regole esistenti, anche il raddoppio del ticket di licenziamento è più che bilanciato dagli incentivi.

La questione che si apre è però un’altra: questa soluzione di equilibrio è quella che serve per impattare sulla responsabilità sociale delle imprese? Le norme allontanano il carattere invasivo dell’intervento pubblico nel privato, non siamo alla “propaganda anti-impresa” denunciata più volte da Confindustria, ma sono in grado di incidere sui comportamenti, non eticamente corretti, dei licenziamenti selvaggi via Whatsapp, ancora sulle chiusure last minute, in altre parole sull’atteggiamento adottato alla Gkn di Campi Bisenzio o alla Caterpillar di Jesi?

Il rischio è che le poche novità introdotte non saranno in grado di essere risolutive. Prima di passare all’analisi è obbligatoria una premessa: il fenomeno delle multinazionali sporche e cattive che fuggono dall’Italia è delimitato. Qualche dato: nel 2015-2017 sono state circa 700 le imprese che hanno trasferito le attività all’estero, il 3,3% di tutte le grandi e medie imprese dell’industria e dei servizi. Nel 2001-2006 sono state il 13,4% del totale. Ma c’è stato anche chi è ritornato in Italia. Il saldo: le multinazionali estere in Italia sono aumentate di 987 unità dal 2015 al 2017 e di altre 785 dal 2017 al 2019. E la premessa deve tenere dentro anche un’altra considerazione: licenziare via sms o su Teams è già illegittimo. Quindi le norme non vieteranno questi licenziamenti semplicemente perché ci sono già altre leggi che lo prevedono.

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Una procedura per cessazione allargata. Bastano 15 giorni in più per trattenere una multinazionale in Italia?

L’impresa che non sta attraversando un forte squilibrio, tale da rendere probabile la crisi o l’insolvenza, deve comunicare per iscritto che intende chiudere tre mesi prima dell’avvio della procedura di licenziamento (quest’ultima può durare fino a 75 giorni, con le lettere di licenziamento che partono alla fine). Potranno farlo solo le imprese che hanno occupato almeno 250 dipendenti l’anno prima e che prevedono di licenziare almeno 50 lavoratori. Lo 0,1% del totale delle imprese, che in tutto sono 3.746 su 4,4 milioni, anzi anche meno perché vanno tolte quelle che sono vicine alla crisi e all’insolvenza. Se si considera che la procedura vigente sui licenziamenti collettivi sarà decurtata per evitare di tirarla troppo per le lunghe, in pratica i giorni a disposizione per evitare che la multinazionale chiuda e traslochi all’estero passano da 75 a 90, quindici giorni in più. Sono sufficienti per cambiare la scelta di spostare la produzione altrove?

Il preavviso del preavviso passa - e questa è un’altra novità - dalla presentazione di un piano “per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura”. Chi se ne va deve lasciare una programmazione dettagliata, dagli interventi per “la gestione non traumatica dei possibili esuberi” alle azioni per la rioccupazione, fino ai progetti di riconversione del sito. Ne deve parlare con i ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, ma anche con l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro e soprattutto con i sindacati che devono essere d’accordo. L’intesa con le organizzazioni sindacali è obbligatoria per la firma del patto e una volta sottoscritto sempre chi se ne va deve assumersi l’impegno di “realizzare le azioni” previste. Già è difficile arrivare all’accordo con i sindacati quando l’impresa va bene: è evidente che far maturare l’intesa su una sorta di testamento è quantomeno un passaggio complesso.

Di contro - e questo è un elemento di tutela per i lavoratori - l’impresa che se ne va non può avviare la procedura di licenziamento fin quando non termina l’esame del piano. E sono nulli quelli intimati se non si comunica la decisione entro novanta giorni prima di mettere in moto la stessa procedura.

Il raddoppio del ticket di licenziamento. È un freno efficace?

Se il piano non viene presentato o se dopo la verifica che viene fatta dalla struttura per la crisi d’impresa non contiene gli impegni previsti, allora il datore di lavoro deve pagare il contributo di licenziamento in misura doppia. Il testo iniziale del Pd e dei 5 stelle parlava di un importo moltiplicato per sei volte, il livello della maggiorazione maturato durante gli incontri tra palazzo Chigi, il Tesoro, il ministero dello Sviluppo economico e quello del Lavoro, l’ha fortemente ridimensionato. Si tratta comunque di un disincentivo per le imprese che sono chiamate a pagare questo ticket dal 2012, quando la legge Fornero ha vincolato il licenziamento al pagamento appunto del contributo. Se non c’è l’accordo con i sindacati, il pagamento è aumentato del 50 per cento. Ma il punto è un altro: è un freno efficace, capace cioè di cambiare l’orientamento del management o invece è un costo sopportabile a fronte della possibilità di chiudere?

Gli incentivi. L’altra via per far restare le multinazionali in Italia

Non figurano nella bozza delle norme perché il ministero dello Sviluppo economico, guidato da Giancarlo Giorgetti, ha già provveduto a renderle operative attraverso una direttiva. Sono gli incentivi, le agevolazioni e altre forme di sostegno finanziario che, a parità di requisiti, saranno dati alle imprese che assumono i lavoratori licenziati dalle imprese che decidono di chiudere, oltre a quelli che provengono dalle aziende coinvolte nei tavoli di crisi al Mise. La linea è quella di fare in modo che le multinazionali restino in Italia perché incentivate a farlo, a fronte di impegni che impattano sulla tutela dei lavoratori, oltre che sulla produzione.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.