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Anche il governo dei migliori inizia a logorarsi

(Photo: Mondadori Portfolio via Mondadori Portfolio via Getty Im)
(Photo: Mondadori Portfolio via Mondadori Portfolio via Getty Im)

Non è una novità, da che mondo è mondo, che la manovra economica sia uno dei parti più travagliati che, di anno in anno, si riproduce uguale a se stesso. Ma proprio quello che non è una novità per governi ordinari, segnala una “notizia”, e con essa una anomalia, per un governo di emergenza come quello Draghi, nato all’insegna del decisionismo. E se è vero che i primi segni di appannamento si sono visti sin dall’inizio del semestre bianco, contraddistinto da una prevalenza dell’elemento politico e partitico del governo rispetto alla capacità di autonomia del premier, le ultime settimane segnalano che il passaggio dalla trattativa al più classico dei rischi di palude può essere assai breve, anche per i migliori.

In altri tempi si sarebbe registrata assai meno indulgenza da parte degli attori in campo verso una manovra approvata formalmente lo scorso 28 ottobre, scomparsa dai radar anche dei ministri per una quindicina di giorni e ricomparsa con 219 articoli rispetto ai 185 di quando è stata licenziata dal cdm. E che approderà in Parlamento, fanno sapere, entro venerdì. Ovvero in ritardo di oltre venti giorni rispetto al termine previsto del 20 ottobre. Non una questione formale, ma sostanziale che attiene alla compressione dei tempi di discussione e approfondimento da parte delle Camere, argomento su cui non è assolutamente fuori luogo la richiesta di Giorgia Meloni rivolta ai presidenti delle Camere, di “difendere le prerogative del Parlamento”. Lo avrebbe chiesto, come lo chiedeva, il centrosinistra quando era all’opposizione del centrodestra e lo avrebbe chiesto, come lo chiedeva, il centrodestra quando era all’opposizione del centrosinistra. Ritardo dovuto a un vizio di origine temporale, ma anche alle modalità di una sorta di “trattativa” riservata dei singoli ministeri col Tesoro, dopo la prima approvazione e senza un successivo passaggio di nuovo in cdm.

Il punto ulteriore, rivelatore anch’esso di una difficoltà, è che, nell’ambito di questo percorso un po’ singolare, ci sono ancora da sciogliere tutti i nodi più delicati dal punto di vista politico su cui, proprio nell’ambito di una faticosa mediazione, il premier ha scelto il “rinvio”, antica consuetudine cui non è riuscito a sottrarsi nemmeno il “migliore”. Tale è la mossa, politicamente anche comprensibile, di rinviare proprio al Parlamento la discussione sui 8 miliardi di riduzione fiscale, evitando di scegliere a monte se destinarli più al cuneo come chiede il centrosinistra o a principi di flat tax, come chiede il centrodestra. E non è malizioso registrare una certa simmetria tra rinvii, o comunque meno polso nell’azione di governo, e discussione sul Quirinale, cui il premier, tirato pubblicamente in causa anche da autorevoli esponenti del suo governo, non si è sottratto, confermando implicitamente di essere pienamente nella contesa.

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Vale anche per il decreto concorrenza, provvedimento che sostanzialmente si limita a conservare la concorrenza esistente, senza particolare vigore riformatore come fu, ad esempio, per le famose lenzuolate di Bersani: e non solo perché è stata rimandata la questione dei balneari, su cui è poi arrivata pure una sentenza del Consiglio di Stato a sancire la necessità di un intervento prorogando le concessioni solo fino al 2023. Più in generale si è deciso di non incidere su tutti i settori più divisivi, dal trasporto pubblico locale alla telefonia, dalle assicurazioni ai notai, il che segnala un cedimento al realismo – l’amministrazione più che le riforme – proprio su un provvedimento dove meglio poteva tradursi la cultura liberale del premier.

Insomma, diciamo le cose come stanno: il rischio è la normalizzazione. Se un governo, nato per scegliere in base a una visione dell’interesse nazionale, riproduce le classiche dinamiche di un governo di coalizione poco coeso finisce per dare l’idea di una spinta propulsiva attenuata. O che resta affidata solo alla gestione sanitaria dell’emergenza, dossier perfettamente funzionante ma anche alibi che copre la fatica sul secondo corno della missione di questo governo, l’emergenza economica. L’emergenza sanitaria, con l’accelerazione sulla terza dose e la proroga della legislazione speciale, è una cappa che copre il tutto, ma il tutto può anche essere il passaggio dal governo per le riforme all’ordinaria amministrazione, peraltro proprio in un momento cruciale nella gestione del Recovery, in cui si chiude la fase propedeutica e si passa alla fase della messa a terra, per nulla scontata come si evince dal grido di allarme dell’Anci sull’inadeguatezza delle strutture esistenti, in termini di personale, nel garantire capacità di spesa. E se la prospettiva del Quirinale, e con essa la necessità di un’ampia maggioranza, può indurre a una gestione dell’esistente, il governo implica scelte, mettendo in conto di scontentare anche qualche grande elettore. Il bivio di Draghi, che dà un po’ non parla dell’orizzonte temporale del suo governo, è questo: se considerare, con la finanziaria, concluso il ciclo o investire politicamente sulla nuova fase, con lo stesso vigore dimostrato sull’emergenza sanitaria.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.