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Argento Vivo/7. Olimpiadi 1972. Tre secondi

Argento Vivo (Photo: Gedi Visual)
Argento Vivo (Photo: Gedi Visual)

Chi vince festeggia, chi perde spiega

(Julio Velasco)

Quando il 4 ottobre 1957 l’Unione Sovietica manda in orbita intorno alla Terra il primo satellite artificiale, lo Sputnik, l’impatto mediatico è spaventoso in tutto il mondo. In piena guerra fredda, al culmine di quel conto alla rovescia, l’Urss mostra al mondo una clamorosa prova di forza nella corsa allo spazio. E non si ferma: un mese dopo, i sovietici inviano nello spazio il primo mammifero, la cagnolina Laika. Nel 1961 è la volta del primo uomo, il cosmonauta Jurij Gagarin. Per gli Stati Uniti è uno smacco clamoroso, il terrore di un sorpasso scientifico. Bisogna reagire, riorganizzando di corsa le strategie spaziali e quelle scolastiche. In pochi anni Washington riversa miliardi di dollari nel sistema educativo, viene creata la Nasa, viene lanciato il programma Apollo che nel 1969, porta l’uomo sulla Luna e la bandiera a stelle e strisce sul suolo lunare.

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Questo è il mondo nei decenni della Guerra Fredda: Usa contro Urss, sempre e dovunque. Questo è il mondo anche nei primi anni Settanta. Le Olimpiadi di Monaco del 1972 si aprono nei giorni in cui si conclude la “sfida del secolo”, la finale del campionato mondiale di scacchi fra il detentore del titolo, il sovietico Boris Spasskij, e lo sfidante, l’americano Bobby Fischer. Una sfida seguitissima, trasmessa in televisione, giocata in estate a Reykjavik. “Il mondo libero contro i russi bugiardi, bari e ipocriti” è la sintesi dello stesso Fischer, che carica lui stesso la partita di un significato politico. Un duello ancor più perfetto per le personalità dei due protagonisti: Fischer: eccentrico, geniale, ossessivo, litigioso. Spasskij: riservato, metodico, imperturbabile. Entrambi figli unici, bambini prodigio, entrambi sotto controllo di Fbi e Kgb, pedine della grande contesa fra superpotenze. In quel 1972, per la prima volta prevale l’America di Bobby Fischer, per la prima volta dal 1946 i sovietici cedono il titolo mondiale negli scacchi. Uno smacco clamoroso. Ma per la rivincita i sovietici non devono attendere molto. Dopo pochi giorni prendono il via le Olimpiadi in Germania Ovest. E si aprono nel sangue.

FILES - Picture taken on September 5, 1972 shows a Palestinian guerilla member (C) appearing on the balcony of the Israeli house watching an official (L) at the Munich Olympic village. As German magazine
FILES - Picture taken on September 5, 1972 shows a Palestinian guerilla member (C) appearing on the balcony of the Israeli house watching an official (L) at the Munich Olympic village. As German magazine

Protagonista della nostra storia è la nazionale americana di basket, la prima a perdere la medaglia d’oro alle Olimpiadi, per mano dell’Unione Sovietica.

Il 5-6 settembre 1972, da Monaco di Baviera le televisioni diffondono in tutto il mondo immagini sconvolgenti. Il commando terroristico palestinese Settembre Nero irrompe nel villaggio olimpico, uccide due atleti israeliani, ne prende in ostaggio altri 9. Trascorrono ore drammatiche di negoziato, che finiscono nel sangue: la polizia tedesca tenta il blitz, muoiono tutti gli atleti sequestrati, cinque fedayin e un poliziotto tedesco.

Lo sconcerto di tutto il mondo non basta a fermare la macchina olimpica. Avery Brundage, controverso presidente del Cio, da 20 anni al potere dello sport, non ha esitazioni: lo spettacolo deve continuare. Così dopo tre giorni, il 9 settembre, alla Rudi Sedlmayer Halle si disputa già la finale nella pallacanestro maschile: Usa contro Urss. Orario d’inizio alle 23.45, per venire incontro alle esigenze delle potenti televisioni americane.

Gli Stati Uniti sono i favoriti per definizione: sono imbattuti alle Olimpiadi, con 7 titoli consecutivi e un ruolino di 63 vittorie e zero sconfitte. Come sempre sono una squadra giovanissima, una selezione dei migliori talenti del college, tutti under22 alla loro prima esperienza internazionale, non ancora professionisti. Quanto basta però per annientare chiunque incontrino sul loro cammino, compresa l’Italia, asfaltata con uno scarto di 30 punti. L’Urss, invece, è la Nazionale campione d’Europa, una squadra di veterani, fisicamente molto solida: spicca il talento cristallino di Sergey Belov, il miglior giocatore europeo.

Il match si mette subito bene per i sovietici, che partono con un parziale di 7 a 0. Gli americani rincorrono nel punteggio per tutta la partita, ma riescono a rimanere agganciati. All’intervallo il vantaggio sovietico è di cinque punti, 26 a 21. A complicare la rimonta americana è il venir meno di due giocatori chiave: Dwight Jones viene espulso insieme a Ivan Dvornij, una riserva che, si dice, i sovietici avevano fatto entrare in campo proprio per provocare uno degli avversari più pericolosi. Jim Brewer, invece, deve uscire dal campo per infortunio dopo una brutta caduta nella palla a due di inizio secondo tempo. Nei volti dei giocatori americani si legge la preoccupazione, il terrore di perdere quella partita. A sei minuti dalla fine sono dietro di 10 punti, ma riescono a reagire. I sovietici giocano di esperienza, badano soprattutto a tenere palla e far scorrere il cronometro. Ma gli americani non sbagliano più niente e recuperano punto su punto. A 30 secondi dalla fine si ritrovano con un solo punto di svantaggio: 48 a 49. Palla all’Unione Sovietica. Ancora una volta i sovietici si passano la palla, nessuno tenta il tiro. Poi un passaggio maldestro viene intercettato da Doug Collins, che recupera palla al centro del campo e si invola a canestro, ma viene abbattuto in area da un difensore. Fallo, due tiri liberi. Collins per qualche secondo resta tramortito a terra, viene soccorso dai medici, ma si rialza. Si presenta in lunetta con addosso una pressione incredibile: il pubblico sugli spalti fa un tifo indiavolato e lui ha in mano i tiri della vittoria. Collins è freddissimo, fa il suo dovere e gli Usa passano in vantaggio per la prima volta nel match, 50 a 49, quando mancano 3 secondi alla fine e il cronometro continua a scorrere. I sovietici si affrettano a riprendere il gioco, Sergej Belov tenta l’azione personale e sta per perdere palla, ma coach Kondrashin entra in campo protestando con veemenza con l’arbitro per la mancata concessione di un timeout. L’arbitro brasiliano Renato Righetto ferma il gioco e il suo fischio si sovrappone al suono della sirena finale. Per gli Stati Uniti la partita è finita, non c’è più tempo, sono ormai sicuri di avercela fatta.

10 SEPT 1972:   The US basketball team tries to question the decision of the officials giving the gold medal to the Soviet Union in at the Olympic games in Munich, West Germany. The final score was 51-50...Photo:  © Rich Clarkson / Rich Clarkson & Assoc. (Photo: NCAA Photos via NCAA Photos via Getty Images)
10 SEPT 1972: The US basketball team tries to question the decision of the officials giving the gold medal to the Soviet Union in at the Olympic games in Munich, West Germany. The final score was 51-50...Photo: © Rich Clarkson / Rich Clarkson & Assoc. (Photo: NCAA Photos via NCAA Photos via Getty Images)


E invece no. Perché sta per cominciare un’altra partita, con altri protagonisti. Il cronometrista dice che il fischio dell’arbitro è arrivato un secondo prima della sirena e quel secondo va giocato. Alcune ricostruzioni fanno risalire quella decisione a un certo Joseph Blatter, che lavorava per Longines e aveva partecipato all’organizzazione dei Giochi, lo stesso Sepp Blatter che molti anni dopo diventerà il capo del calcio mondiale prima di essere travolto da uno scandalo di tangenti. In scena in quel caos totale entra soprattutto Renato William Jones, segretario della Fiba, l’organo di governo del basket internazionale. Gli arbitri non riescono più a gestire il campo, la situazione è completamente sfuggita di mano, tutti protestano, il pubblico non capisce cosa sta accadendo. Jones ordina agli arbitri di far ripetere l’azione, riconoscendo al coach sovietico di aver chiesto un timeout prima dei tiri liberi di Collins. Per regolamento quindi, con il timeout, il cronometro si ferma: e mancano ancora 3 secondi alla fine.

Con qualche difficoltà si riprende a giocare. L’azione riparte, i sovietici rimettono dalla linea di fondo, passaggio corto, tiro lunghissimo alla disperata che colpisce il ferro, proprio mentre suona la sirena finale. E’ finita, gli americani esplodono in un’esultanza incontenibile, saltano, si abbracciano, è un misto di gioia e di sollievo per quella partita che non potevano perdere e che avevano recuperato con una grande rimonta. Il parquet è di nuovo invaso da decine di persone, giocatori, giornalisti, fotografi. E invece no. Stavolta è un errore materiale a illudere gli Stati Uniti. Il tabellone non era stato aggiornato, non era stato riportato a 3 secondi. Si deve ripetere. Gli arbitri impiegano qualche minuto per convincere gli americani che non è finita, i giocatori protestano, la panchina minaccia di abbandonare il campo, ma ogni protesta è inutile.

Il campo viene sgomberato ancora una volta. E comincia un’altra partita, la terza, di soli tre secondi. Palla ai sovietici, dalla panchina entra Ivan Edeshko3 e si incarica della rimessa dal fondo: non trova compagni vicini smarcati e lancia la palla alla cieca, più lunga che può, verso l’area avversaria. Sotto canestro gli americani Kevin Joyce e Jim Forbes si gettano sulla palla, ma si scontrano fra di loro nel tentativo di intercettare il passaggio. La palla finisce nelle mani di Alexander Belov, a cui basta appoggiare a canestro, proprio un istante prima dello scadere.

The Soviet Olympic basketball team won 51-50 in the final game against the United States, giving them the gold medal. Here is Aleksander Belov scoring the winning basket. (Photo: Bettmann via Getty Images)
The Soviet Olympic basketball team won 51-50 in the final game against the United States, giving them the gold medal. Here is Aleksander Belov scoring the winning basket. (Photo: Bettmann via Getty Images)

Finisce 51 a 50. Belov esulta correndo a braccia alzate verso i compagni, che lo travolgono e lo abbracciano formando una montagna umana di gioia. I giocatori americani invece restano pietrificati, mentre la panchina abbozza le ultime proteste. Il “passaggio d’oro” di Edeshko, così resta alla storia, e il canestro di Belov infrangono il dominio americano, infliggendo la prima lezione ai maestri del basket.

C’è poi una quarta partita, che si gioca nel post-gara. Secondo alcuni resoconti, l’arbitro Righetto per protesta si rifiuta di firmare il referto ufficiale. William Jones non aveva alcuna autorità per intervenire sugli arbitri in campo. Gli americani contestano a termini di regolamento anche l’ingresso in campo di Edeskho e un’infrazione di passi di Belov. Presentano un reclamo dettagliatissimo, ma il board della Fiba lo respinge con decisione non unanime dopo una travagliata notte trascorsa in camera di consiglio. Siamo pur sempre in piena guerra fredda e quindi non sorprende che, dei 5 giudici del board, il portoricano e l’italiano votano a favore degli Usa, mentre l’ungherese, il polacco e il cubano votano a favore dell’Urss.

Medaglia d’oro all’Unione Sovietica, argento agli Usa. Che però per protesta disertano il podio. Un podio tutto comunista visto che oltre all’Urss, c’è Cuba terza dopo la vittoria nella finalina contro l’Italia. Ancora oggi gli americani non riconoscono quella sconfitta e le medaglie d’argento sono ancora conservate nel caveau di una banca a Losanna.

(Original Caption) Dejected. Munich, West Germany: Dejected members of American basketball team sit on their bench after losing close game to USSR, in Olympic basketball final here. Players include (LTR): Jim Brewer, Bob Jones, Dwight Jones, and Mike Banton. (Photo: Bettmann via Getty Images)
(Original Caption) Dejected. Munich, West Germany: Dejected members of American basketball team sit on their bench after losing close game to USSR, in Olympic basketball final here. Players include (LTR): Jim Brewer, Bob Jones, Dwight Jones, and Mike Banton. (Photo: Bettmann via Getty Images)

Al ritorno in patria i giocatori sovietici sono accolti come eroi. Non è una storia gloriosa per tutti loro, però. L’eroe di Monaco, Alexander Belov, ad esempio, gioca qualche anno da protagonista nel campionato nazionale, viene perfino scelto da New Orleans nel draft della Nba del 1975. L’anno successivo però, nel 1976, viene rinchiuso in un carcere sovietico con l’accusa di contrabbando e lì finisce i suoi giorni, ad appena 26 anni, stroncato da un angiosarcoma.

I giocatori americani di Monaco 1972 tornano a casa convinti di aver subito un sopruso sportivo, ma con l’onta di un’imperdonabile sconfitta. Soli con questo marchio fino al 1988, perché alle olimpiadi di Seul i sovietici concedono il bis. Con l’Urss ormai in disgregazione, la Nazionale ripete l’impresa: guidata dal duo di fenomeni lituani Marciulonis e Sabonis, stavolta la vittoria è netta, senza polemiche. E dopo quell’ennesimo smacco nel “loro” sport, l’America decide di cambiare: basta mandare i ragazzini alle Olimpiadi, nel 1992 arriva il dream team di Magic Johnson, Larry Bird, Michael Jordan. Arrivano i professionisti della Nba. Il mondo nel frattempo è cambiato radicalmente: quel dream team si dimostra la squadra più forte che abbia mai calcato un parquet. Al secondo posto finisce la neonata Croazia, dopo il crollo della Jugoslavia, per inciso in quegli anni la più forte Jugoslavia di sempre nel basket. Terza arriva la Lituania, erede di un altro storico crollo, quello dell’Unione Sovietica, superpotenza del basket olimpico.

Argento Vivo (Photo: Gedi Visual)
Argento Vivo (Photo: Gedi Visual)

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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