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Aung San Suu Kyi nelle mani dei generali, col placet di Cina e Russia

A person holds up a placard depicting Aung San Suu Kyi after the military seized power in a coup in Myanmar, outside United Nations venue in Bangkok, Thailand February 3, 2021. REUTERS/Soe Zeya Tun (Photo: Soe Zeya Tun via Reuters)
A person holds up a placard depicting Aung San Suu Kyi after the military seized power in a coup in Myanmar, outside United Nations venue in Bangkok, Thailand February 3, 2021. REUTERS/Soe Zeya Tun (Photo: Soe Zeya Tun via Reuters)

Chi si ricorda di quanto è accaduto nell’antica Birmania, il Myanmar, meno di un anno fa, il primo febbraio? Sicuramente saranno in pochi, distratti come siamo stati tutti quanti dalla recrudescenza del Covid e dai fatti interni e internazionali di questo 2021 che sta per avviarsi al termine. Un’annata che, insieme all’ annus horribilis della pandemia, il palindromo, funesto – e non a caso bisesto – 2020, andrà senz’altro a formare un duo infausto da dimenticare. E contando, forse, sulla generale distrazione globale, i militari golpisti hanno pensato bene di attendere, pazientemente, che i riflettori dell’indignazione internazionale – rimasti accessi per poche settimane dopo il push di febbraio – si spegnessero del tutto, per cominciare a colpire duramente “La Signora”, Aung San Suu Kyi, che pure dopo il suo paventato coinvolgimento nella feroce repressione del popolo Rohingya, resta un simbolo, anzi “il” simbolo, della resistenza democratica alla feroce dittatura dei generali.

In un Paese, l’antica Birmania appunto, che accanto alla sua straordinaria bellezza naturalistica, artistica, culturale e religiosa pare funestato da un destino disgraziato. Il “Paese delle Mille pagode”, infatti, è una delle nazioni più povere del Mondo, una delle meno sviluppate, una delle meno democratiche e sicuramente è il primo paese produttore di oppio e di eroina del Pianeta. Con al potere una giunta militare direttamente coinvolta in questo traffico, che governa attraverso un regime di eccezionale brutalità, esercitando una repressione spietata nei confronti delle popolazioni, sia birmane che appartenenti alle minoranze etniche, e ha elevato la corruzione a elemento strutturale di un sistema economico nel quale convivono fianco a fianco affaristi locali e investitori stranieri. La Banca Mondiale prevede che la quota della popolazione del Myanmar che vive in povertà è destinata a raddoppiare entro l’inizio del 2022, rispetto ai livelli del 2019, mentre l’economia si contrarrà di circa il 18%, con implicazioni dannose per la vita, i mezzi di sussistenza, la povertà e la crescita futura.

In questo scenario deprimente, la notizia della prima di una lunga serie di sicure condanne inflitte alla “Signora” non ha in realtà meravigliato nessuno. Era già tutto scritto, fin da quando la piccola ma indomita Suu Kyi – malgrado i suoi 76 anni - venne prelevata dalla sua casa a febbraio e messa agli arresti, inizialmente con l’accusa più che risibile di “possesso illegale di due walkie-talkie”. Ora i generali golpisti hanno deciso di iniziare l’affondo contro di lei, con una prima condanna a quattro anni di reclusione - dimezzati con una farsesca grazia parziale dalla giunta militare - per i reati di “istigazione alla sedizione” e “mancato rispetto delle restrizioni sulla pandemia”; solo un piccolo assaggio di in un’offensiva legale che punta ad infliggere a lei e al suo partito, la National League for Democracy, un duro colpo politico. Probabilmente, nelle aspirazioni della dittatura dei generali, quello definitivo. L’accusa che riguarda la violazione delle norme sanitarie si basa su di un episodio accaduto durante la campagna elettorale del 2020, quando Aung San Suu Kyi passeggiava, con maschera e visiera, insieme al suo cane, Taichito, e salutava alcuni sostenitori che passavano in macchina e le rivolgevano incitazioni e incoraggiamenti dai finestrini, senza fermarsi. Un video della scena, ripreso da un sostenitore, mostra come anche i collaborati e il personale di sicurezza in piedi nelle vicinanze, rispettassero tutti il distanziamento sociale.

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Le prime reazioni sdegnate della comunità internazionale non si sono fatte attendere, ma è assai improbabile che possano esercitare una qualsiasi influenza sui Generali, che si muovono – ormai è chiaro – forti di un “ombrello” protettivo congiunto di Pechino, da una parte, e di Mosca, dall’altra. “Questa ridicola sentenza non è altro che una parodia della giustizia”, ​​ha affermato in una nota ufficiale Charles Santiago, legislatore malese e presidente della commissione dell’ASEAN per i diritti umani, mentre il vice direttore regionale di Amnesty International, Ming Yu Hah, ha subito dichiarato che “Le dure condanne inflitte a Aung San Suu Kyi con queste accuse fasulle sono l’ultimo esempio della determinazione dei militari di eliminare ogni opposizione e soffocare la libertà in Myanmar”. Anche la commissaria Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha espresso l’indignazione europea, parlando di “un processo fasullo in un procedimento segreto davanti a un tribunale controllato dai militari” che ha portato a “una sentenza motivata politicamente”. Tutti uniti nello sdegno, dunque, anche se, nel coro degli indignati spicca il silenzio assordante di Cina e Russia, come era ampiamente prevedibile. E i generali non sembrano intenzionati a fare un passo indietro, anzi, la sentenza di oggi è solo – purtroppo – un piccolo assaggio di ciò che aspetta Aung San Suu Kyi nelle prossime settimane e mesi. Il rischio, molto reale, è che la Signora debba affrontare fino a 102 anni di carcere, per gli 11 reati dei quali viene o verrà accusata.

Oltre ai reati per i quali è stata condannata oggi, infatti, Suu Kyi verrà processata anche per altri capi d’imputazione ben più gravi. Primo fra tutti, la diffusione di segreti di Stato, che fa riferimento a una legge retaggio dell’era coloniale britannica, che criminalizza il possesso, la raccolta, la registrazione, la pubblicazione o la condivisione di informazioni statali che sono “direttamente o indirettamente, utili a un nemico”. I coimputati di Suu Kyi in questo reato sono tre ex membri del suo gabinetto e Sean Turnell, un economista australiano che è stato suo consigliere. I dettagli del presunto reato non sono stati resi pubblici, anche se la televisione di stato ha affermato che Turnell ha avuto accesso a “informazioni finanziarie segrete dello stato” e ha cercato di fuggire dal paese. La pena massima per questo reato è di 14 anni di carcere e il verdetto è previsto nel 2022.

Un tribunale speciale sta esaminando poi anche quattro accuse di corruzione contro Suu Kyi, che la Signora ha subito rigettato definendole “assurde”. Il procedimento si baserebbe sulla testimonianza di un ex alleato politico di Suu Kyi che avrebbe dichiarato di averle dato una tangente di 600.000 dollari ed anche sette lingotti d’oro, in un periodo fi tempo compreso tra il 2017 e il 2018. Suu Kyi è stata anche accusata di aver dirottato denaro raccolto come donazioni di beneficenza per costruire una residenza e di aver abusato della sua posizione per ottenere proprietà in affitto a prezzi inferiori a quelli di mercato per una fondazione di beneficenza da lei presieduta, che prende il nome da sua madre. La pena massima per ogni di questi reati è di 15 anni di reclusione oltre ad una multa. Nessuna data è stata ancora fissata per questi ulteriori processi. Un’altra accusa di corruzione, riguardante l’affitto di immobili, non è ancora stata formulata ufficialmente, ma si sa che è “nell’aria. Mentre la settimana scorsa le autorità militari hanno anche annunciato di aver avviato un procedimento penale contro di lei e il suo compagno di partito, l’ormai deposto Presidente Win Myint, in relazione al noleggio e all’acquisto di un elicottero. Quest’ultima accusa porterebbe a 12 il numero dei procedimenti penali a carico di Suu Kyi.

Anche se da tempo pochi ne parlano, la resistenza popolare contro i militari non si è fermata, malgrado la feroce repressione seguita al colpo di stato di febbraio, quando l’esercito ha sparato uccidendo i manifestanti nelle strade e ponendo fine alle enormi manifestazioni popolari. Ma la gente ha trovato nuovi modi di opporsi, organizzandosi in piccoli gruppi che ogni giorno danno vita a piccole proteste a sorpresa in tutto il paese, spesso girando in motocicletta per le strade, esponendo cartelli anti-golpe e gridando slogan contro i Generali. Alcuni organizzano anche proteste tipo flash-mob nei centri commerciali, mentre altri aderiscono al movimento di disobbedienza civile rifiutandosi di presentarsi ai posti di lavoro governativi o di pagare le tasse o l’elettricità, gestita dal governo. In tantissimi boicottano le molte aziende di proprietà militare, non bevendo più la popolarissima Myanmar Beer, per esempio, oppure rescindendo il contratto con il fornitore di servizi di telefonia mobile, Mytel. Ma i rischi di subire la violenza dei militari resta comunque molto alto, con Ia polizia e i soldati che continuano a sparare su chi prova a manifestare. Ieri un numero non precisato di persone è stato ucciso durante una manifestazione, quando un veicolo militare è piombato sulla folla ed ha attraversato la protesta sparando, come testimonia un video registrato dai manifestanti, dove si sentono distintamente i colpi delle armi automatiche dei militari.

I generali vanno avanti per la loro strada, insomma, incuranti del biasimo globale, intenzionati, invece, ad aumentare ulteriormente il loro potere e la forza intimidatoria del loro arsenale. “I militari stanno cercando in tutti in modi di avere la Bomba Atomica”, aveva denunciato Aung San Suu Kyi prima del colpo di Stato. “Se ci riusciranno, sarà come affidare un’arma di distruzione di massa nelle mani di un bambino squilibrato”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.